Emiliano Delmenico è figlio e nipote di becchini. Impresario funebre, racconta il suo rapporto con la morte: «Non è la Nera Mietitrice».
MELIDE - Suo nonno era un becchino di vecchio stampo. Di quelli che facevano anche falegnameria. Suo padre faceva lo stesso mestiere. E parlava di morti sia a pranzo sia a cena. Emiliano Delmenico, 52enne di Melide, origini malcantonesi, ha un legame stretto con la Nera Mietitrice. Non è un caso che col fratello Gianmaria (54) faccia l'impresario funebre, oltre a essere presidente di una delle due associazioni di categoria presenti su suolo ticinese.
Oggi è il giorno dei defunti. E lei è cresciuto a pane e morte...
«Fa un po' strano dirlo. Ma è così. Quando a mezzogiorno arrivavo a casa e nostra madre preparava il pranzo, il papà ci parlava dei funerali che doveva organizzare. La morte è sempre stata qualcosa di normale per me».
Ci si abitua alla morte?
«Nel mio caso sì. A tal punto che all'interno della nostra azienda non sono più nemmeno la persona adatta per parlarne con le famiglie in lutto. Per fortuna ho degli ottimi collaboratori dotati della giusta sensibilità».
Lei non è più sensibile come lo era in passato?
«Io sono diventato fin troppo pragmatico. Troppo freddo. Manageriale. Dopo oltre 20 anni in questo campo può accadere. È un mestiere in cui devi imparare a gestire le emozioni».
E se non lo si fa cosa può succedere?
«Ho avuto colleghi che hanno smesso. Perché di notte non riuscivano a prendere sonno. O addirittura perché la moglie non voleva più dormire accanto a loro, o i figli li guardavano storto. Le emozioni e il giudizio sociale hanno un ruolo fondamentale».
È capitato anche a lei di essere giudicato?
«A volte ho la sensazione che la gente mi guardi come se fossi io la morte. Di certo penso di non essere visto come una persona attraente da avere a cena. Detto ciò, ho la mia vita normalissima. Sono stato sposato e ora ho una compagna. E ho una figlia di 20 anni».
Sua erede?
«Chissà. Al momento si concentra su altro. Però di recente su mia proposta ha vissuto l'esperienza di vestire un cadavere. Una volta era normale che fosse la famiglia a vestire il defunto. Il becchino è un lusso nato dopo e che ha privato la gente di questa esperienza profonda e intima».
Quando a lei è capitato per la prima volta di vestire un defunto come si è sentito?
«Ero curioso. Mi domandavo come sarebbe stato toccare un morto. Poi è subentrata la naturalezza. D'altro canto non è qualcosa che ti lascia indifferente. Ti fai tante domande esistenziali. Ti domandi se sei solo un involucro che a un certo punto smetterà di funzionare o se dopo la vita c'è altro. Io spero in quel qualcosa».
A volte una persona muore in seguito a un incidente, a un omicidio, a un suicidio... Come si sente quando si trova di fronte a certe scene?
«Lì il cervello fa un click. Per forza. Come quando il pompiere deve entrare in azione. Se ti lasci trasportare dalle emozioni è finita, ti blocchi. È un esercizio mentale rigoroso».
Come vengono vissuti i funerali nel 2023?
«Il Covid ha fatto abituare le famiglie a commemorazioni più veloci, immediate, spartane. Se è una scelta, va benissimo. Se è un discorso sociale invece, andrebbe fatta una riflessione. Io propongo sempre alle famiglie di fare le cose con calma. Di viverlo il lutto. Ma si percepisce in generale una crescente fretta, una frenesia probabilmente dettata anche dal contesto in cui si vive».
Ben oltre l'80% dei defunti viene cremato. Ormai il tabù è caduto.
«Sì. E la cremazione non aiuta di certo a vivere la morte con più lentezza e consapevolezza. Si vuole organizzare tutto velocemente. Riservare la sala del crematorio è quasi diventato come riservare un campo da tennis».
Quanto conta oggi l'aspetto religioso nei funerali?
«Avverto un certo distacco. A volte mi sembra che il prete venga chiamato solo perché il defunto appartiene a una generazione in cui "si faceva così". I funerali si concentrano soprattutto su ricordi di vita più laici del defunto. Al crematorio vengono proiettate le foto del defunto, si ascoltano le sue canzoni preferite. Si racconta la persona. Questa la trovo una cosa carina. Tra l'altro consiglio sempre alle famiglie di non snaturare la natura del defunto nella bara. Si vedono morti che indossano giacca e cravatta, quando nella vita magari non ne hanno mai portati. Non è che di fronte alla morte bisogna apparire diversi da come si era».
La morte è davvero una Nera Mietitrice?
«Io non la penso così. Secondo me culturalmente tutti questi aggettivi tetri ci hanno condizionati. Hanno tolto naturalezza al lutto. Io vorrei dare alla morte un significato più naturale e di speranza».