Processo choc a Bremgarten: la testimonianza di Annabella Russo, mamma di Giuseppe che per quasi 20 anni ha vissuto attaccato alle macchine.
ARBEDO-CASTIONE - «Certi genitori non reggono l'idea di avere un bimbo disabile. Io in gioventù ho avuto una scuola di vita pesante. E quando è arrivato Giuseppe ero già "vaccinata". Mi sono detta che gli avrei dato tutto l'amore possibile. Ma non si può pretendere che tutti siano così».
Il processo – È il primo commento di Annabella Russo di fronte al processo choc in conclusione a Bremgarten, nel canton Argovia. Alla sbarra ci sono due genitori che quattro anni fa hanno avvelenato e ucciso la figlioletta gravemente disabile. La sentenza è imminente.
Attaccato al respiratore – Annabella, 51enne di Arbedo-Castione, è mamma di Giuseppe, un ragazzo che per quasi 20 anni ha vissuto attaccato a un respiratore. Era affetto da una rara malattia genetica muscolare, una miopatia miotubulare centronucleare.
Felice comunque – Giuseppe è spirato nell'aprile del 2020. In un contesto sereno. «I medici quando è nato gli avevano dato 6 mesi di vita – ricorda Annabella –. Mi facevano passare per visionaria quando sostenevo che avrebbe potuto a suo modo essere felice. In fondo è stato così. Mi sono dedicata a lui notte e giorno. Sacrificando anche un po' il rapporto con la mia seconda figlia che però ha sempre capito la situazione».
«Fallimento collettivo» – I due genitori argoviesi sostengono di avere avvelenato la bimba per aiutarla a smettere di soffrire. Di diverso avviso la Procura che parla di egoismo e di una coppia che ha rifiutato qualsiasi aiuto. Ancora Annabella: «Avranno anche rifiutato gli aiuti. Ma dal mio punto di vista il gesto di questi due genitori è un fallimento collettivo delle istituzioni e della società. Attorno a loro c'è stato un contesto che non è stato capace di impedire la tragedia».
Egoismo e sofferenza – E a proposito di egoismo e sofferenza Annabella aggiunge: «C'è chi ha avuto il coraggio di dire che io ero un'egoista a tenere in vita Giuseppe. È sempre stato a casa. Non ha mai passato una notte in un solo istituto. I primi dieci anni ho badato io a lui. Poi per fortuna sono subentrati anche gli infermieri. I giudizi mi scivolavano addosso. Quando c'è l'amore, c'è tutto. La sofferenza di mio figlio? Giuseppe è nato così. Non conosceva cosa significasse camminare, nuotare, correre. La gente dice che i figli andicappati soffrono. Ma lo dice perché fa il paragone con la propria esistenza. Non ha senso».
Tutto stravolto – La verità, secondo Annabella, semmai è un'altra. «Avere un figlio gravemente disabile ti stravolge tutto. Non puoi più neanche pensare di andare a mangiare una pizza in leggerezza. Perché sai che devi pensare a lui come priorità. Non è una cosa per chiunque. Il papà di Giuseppe ad esempio non ha accettato la sua disabilità e io l'ho lasciato andare».
«Io ero lucida» – Annabella, che oggi fa l'operatrice sociosanitaria a domicilio e la cui vita è diventata anche un documentario, non nasconde di avere avuto tanti momenti di scoraggiamento. «Con un figlio gravemente disabile ti arrivano per forza. A me non è mai saltato in mente di uccidere il mio "ragazzaccio". Ma avevo i nervi molto saldi ed ero lucida sul fatto di dovergli dare solo amore. L'ho sempre portato ovunque potevo: anche al mare o dal Papa. Alcuni genitori forse soccombono alla disperazione e vedono solo il buio».
Un'opzione che fa discutere – Poi la riflessione che spiazza. Ma che apre ulteriori scenari di dibattito. «Lo ripeto: quando è nato Giuseppe io mi sono detta "va bene, è andicappato, andiamo avanti". Non è una cosa che possono fare tutti però. In alcuni subentra un rifiuto. Io penso che in casi davvero particolarmente gravi bisognerebbe dare la possibilità ai genitori di optare per l'eutanasia del neonato. Non è superficialità e io per prima non avrei mai scelto una soluzione del genere per Giuseppe che rientrava in questa categoria. Sono realista».