Chiesta l'assoluzione di alcuni fatti per la mancanza dell’elemento di astuzia: «Hanno agito tutti per il Dio denaro».
Nel tardo pomeriggio è prevista la sentenza.
LUGANO - «Se è troppo bello per essere vero, probabilmente è un inganno». Cita il filosofo Max Weber l’avvocato Andrea Minesso, legale del “principe” etiope accusato di truffe per mestiere e falsità ripetuta in documenti.
Questa mattina, di fronte alla Corte delle assise criminali di Lugano, presieduta da Amos Pagnamenta, la difesa ha domandato l’assoluzione per il primo punto (almeno per i fatti dal 2015 in avanti) per la mancanza dell’elemento dell’astuzia. «Da parte delle vittime c’è stata una leggerezza crassa e assurda».
Ieri, invece, la procuratrice Chiara Borelli ha chiesto per il sedicente nipote di Hailé Selassié sette anni e l’espulsione dalla Svizzera.
Pur non negando “l’inganno della transazione”, il legale ha messo al centro della sua lunga requisitoria due elementi: i soldi e il conseguente comportamento delle vittime. «In questa storia - precisa - l’unica cosa che comanda è il Dio denaro». Il riferimento è ai titoli tedeschi e americani, emessi fra la prima e la seconda guerra mondiale, del valore di centinaia di miliardi di dollari. Per sbloccare la cifra, il “principe” avrebbe chiesto soldi a tre noti imprenditori del Mendrisiotto per un totale di quasi 13 milioni di franchi, con la promessa di ripartire con loro il totale.
«Dobbiamo chiederci - continua il legale - se le vittime, tenuto conto del loro profilo, abbiano utilizzato un minimo di attenzione e messo in campo i mezzi di controllo di cui disponevano. Di fronte a una cifra così alta, qualche perplessità avrebbe dovuto sorgere». Secondo la difesa «la truffa è un reato particolare e i tre imprenditori avrebbero potuto difendersi ed evitare gli errori mettendo in campo un minimo di prudenza».
Inoltre, il profilo dell’imputato non corrisponderebbe a quello tracciato ieri dall’accusa, cioè di un uomo furbo e con grandi capacità fascinatorie. Prova ne sarebbero gli errori grossolani contenuti nei documenti e le discrepanze nelle richieste. «L’avete conosciuto tutti ieri: ecco, oggi gli dareste dei soldi? E le vittime non sono sprovveduti. Con tutto il rispetto e senza fare a loro il processo, non hanno mai chiesto se i titoli fossero effettivamente incassabili».
Invece, sulla possibile discendenza reale etiope propugnata dall’imputato, la difesa sostiene come esista un documento ufficiale dell’autorità italiana che attesterebbe il cambio di nome e l'appartenenza alla famiglia reale. Ulteriore prova sarebbero le accoglienze in pompa magna ricevute a ogni viaggio nello stato africano. In conclusione, ha preso la parola l'imputato: «Ne esco con le ossa rotte, se ho danneggiato qualcuno chiedo scusa».
Nel tardo pomeriggio è prevista la sentenza.