Parla la moglie del 40enne kosovaro residente nel Luganese oggi alla sbarra alla Corte di appello: «Avevo paura di lui».
LUGANO - «Mi fa stare male pensare a quando lui mi picchiava e mi obbligava a fare sesso quando non volevo, prendendomi con la forza». È con queste parole che la moglie del 40enne kosovaro oggi alla sbarra davanti alla Corte di appello ricorda i soprusi da lei subiti negli anni, tra il 2009 e il 2018. Oltre alle violenze fisiche e sessuali, la donna afferma che il marito la segregava in casa: «Io chiedevo sempre di poter uscire dall'appartamento ma lui mi diceva di no, quando usciva chiudeva la porta a chiave e io rimanevo lì. Potevo uscire solo con mio marito o con i suoi familiari».
«Mi ha rotto in testa un computer portatile» - La relazione tra i due oggi ex coniugi era nata nel 2008 da un matrimonio combinato, in seguito al quale la donna ha raggiunto il marito trasferendosi dal Kosovo alla Svizzera. «Durante il primo anno tutto andava bene, poi, dopo la nascita della nostra prima figlia, le cose sono cambiate», racconta la vittima. «Lui ha iniziato a picchiarmi, a lanciarmi addosso oggetti e a farmi male. Una volta mi ha rotto in testa un computer laptop». Il marito, aggiunge, «voleva poi fare sesso anche quando non volevo, dopo avermi messo le mani addosso: io piangevo e gli dicevo di no, ma lui mi diceva che mi aveva picchiato perché era nervoso e che dovevo passarci sopra».
«Avevo paura» - La donna spiega poi il perché, per tanti anni, non ha raccontato a nessuno quanto stava passando: «Ero qui da sola, non sapevo l'italiano e avevo paura di mio marito. Lui mi diceva che qualsiasi cosa lui facesse io dovevo stare zitta e che se avessi raccontato qualcosa a qualcuno non me lo avrebbe mai perdonato». Inoltre, afferma, «mio marito non mi lasciava lavorare». Solo dopo il trasferimento della famiglia a Neuchâtel, avvenuto nel 2018, la moglie ha avuto il coraggio di parlare con dei familiari e denunciare quanto le stava accadendo.
L'imputato, lo ricordiamo, è stato condannato in primo grado a tre anni e otto mesi di carcere per violenza carnale, sequestro di persona, coazione e violazione del dovere di assistenza o educazione. Oggi la difesa chiede il proscioglimento dell'uomo, che ha sempre negato ogni addebito, mentre la pubblica accusa punta a una pena più severa.