Con i talebani alle porte di Kabul sono molte le dita puntate contro Biden: «Un accordo di pace che puzzava di marcio»
KABUL - Capitale dopo capitale, provincia dopo provincia, fino a Kandahar con gli occhi fissi su Kabul. È stata inarrestabile - e pure inarrestata - l'ormai quasi finalizzata riconquista dell'intero Afghanistan da parte delle truppe talebane.
Un'escalation rapida, poi anche rapidissima con la caduta di Herat e la sopracitata Kandahar (la seconda e la terza città più grande del Paese) nelle ultime 24 ore, che spazza via tutte le previsioni dell'intelligence americana. Le stime, infatti, ipotizzavano una possibile presa prima in 3 mesi, poi 90 giorni, infine 30. La sensazione diffusa, ora, è che possa essere una mera questione di giorni.
All'origine di questa ascesa dei fondamentalisti c'è, come sappiamo bene, la decisione degli Stati Uniti di abbandonare il Paese con un largo anticipo rispetto a quanto stabilito, ovvero questo settembre.
Al momento, riportano i media americani, sul suolo afghano sono attesi circa un migliaio di marines come appoggio per lo sgombero dell'ambasciata americana a Kabul.
Un'evacuazione di buona parte dell'organico dal forte sapore di fuggi-fuggi, con il personale intento a distruggere documenti sensibili e anche computer e telefonini, conferma un reporter della NPR. Stando al New York Times, gli Stati Uniti avrebbero chiesto ai talebani - durante le trattative in corso sempre in Qatar di «risparmiare l'ambasciata in cambio di aiuti».
Una cosa molto simile sta succedendo anche sul fronte britannico, con 600 soldati schierati per circa 3'000 persone con il passaporto di Sua Maestà, da personale diplomatico a interpreti. Lo stesso stanno facendo diversi altri Paesi europei.
Insomma, Kabul viene ormai data per persa. E sono in molti a puntare il dito contro Joe Biden, ritenuto primo responsabile di una situazione che - di fatto - annulla lo sforzo bellico congiunto iniziato 20 anni fa e costato la vita a 2'372 soldati americani. Per non parlare dei civili.
Fra gli osservatori i paragoni si sprecano: c'è chi dice che Kabul sarà la Saigon di Biden, chi il suo Ruanda. C'è chi, come il giornalista veterano della guerra in Afghanistan Peter Bergen, ha usato un'espressione un filo più colorita: «È un ca**o di casino».
La verità è che l'accordo che prevedeva il ritiro, firmato con i talebani sempre in quel di Doha nel 2020, era stato di Donald Trump. Il peso degli Stati Uniti aveva poi spostato forzatamente la bilancia. La gestione del ritiro delle truppe, frettolosa a dir poco, è però tutto frutto dell'amministrazione Biden forse in cerca di consensi “facili”.
«Era un accordo di pace che puzzava di marcio ma una volta che gli States hanno deciso, resistere era impossibile. Anche se avremmo voluto», ha commentato a Sky News il ministero della Difesa britannico Ben Wallace, «un ritiro come questo avrà conseguenze importanti sulla comunità internazionale».
La preoccupazione è che in Afghanistan possa non solo ritornare al-Qaida ma che il Paese possa diventare un epicentro terroristico di qualcosa di più grosso, in stile Isis, anche vista la posizione strategica dal punto di vista geografico.