Al via oggi la conferenza dell'Onu sul clima a Dubai. Con il bilancio degli Accordi di Parigi e il Loss and damage, la posta in gioco è alta
DUBAI - Sono passati tre anni dall'attuazione degli Accordi sul Clima di Parigi. Ed è tempo di bilanci. Tra i vari punti che delegati, politici e rappresentanti dovranno affrontare a Dubai nel corso della Cop28, c'è anche e soprattutto il fatto che pochissimi Paesi (tra quelli del G20 giusto 3) hanno implementato o previsto dal 2020 a questa parte delle soluzioni realmente efficaci volte a contenere il riscaldamento globale entro gli 1,5 gradi in più dall'epoca preindustriale. Un altro tema di peso sarà quello del "loss and damage fund", per cui si è arrivati a una proposta di testo definitiva all'inizio di questo mese - che però non convince, dal momento che non obbligherebbe nessun Paese "sviluppato" a contribuirvi.
Alcuni giorni fa il centro di competenza svizzero per la cooperazione internazionale e la politica di sviluppo Alliance Sud riportava in un comunicato le parole di Stefan Salzmann di Azione Quaresimale: «Il successo della COP28 dipenderà da quanto le risoluzioni sul bilancio globale rifletteranno la triste realtà, ovvero che i piani nazionali di protezione del clima non sono complessivamente abbastanza ambiziosi per raggiungere gli obiettivi».
L'improbabilità di nuovi accordi
Stando al Climate Policy Factbook realizzato da Bloomberg e dedicato alla ventottesima Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, «è improbabile» che quest'anno le parti coinvolte raggiungano accordi unanimi che spingano i governi ad accelerare i loro piani sul clima. Il rapporto giudica infatti che su una scala di progressi da 0 a 10, il vertice dovrebbe raggiungere a malapena un punteggio di 3.6.
Basti considerare che solo i Paesi del G20 hanno fornito al settore del petrolio, del gas e dell'energia fossile 3,7 migliaia di miliardi di dollari tra il 2017 e il 2021. E non è un dato in diminuzione. Al contrario. Nell'ultimo anno considerato, i contributi sono stati pari a 600 miliardi, il 14% in più rispetto a quelli del 2017. Se da un lato è però vero che Paesi come Brasile, India e Corea del Sud sono riusciti a diminuire del 40% il budget speso, governi quali Messico e Turchia lo hanno invece triplicato nell'arco dei quattro anni presi in considerazione.
Conflitti d'interesse
E, tornando alla Cop28, quest'anno non aiuta il fatto che la presidenza sia stata assegnata al sultano Ahmed Al-Jaber, amministratore delegato della compagnia petrolifera nazionale degli Emirati Arabi Uniti Adnoc e ministro delle Industrie e delle Tecnologie. Un uomo il cui ruolo era già criticatissimo e che ora è accusato di voler sfruttare il vertice per gonfiare ulteriormente il suo portafoglio.
Stando ad alcuni documenti visionati dal Guardian, nel corso dei colloqui preparativi alla Cop28 gli Uae avrebbero cercato di chiudere o chiuso nuovi accordi sul petrolio e sul gas insieme a 27 governi. Tra questi, 15 sarebbero stati considerati da Abu Dhabi per impiantare nuovi siti di estrazione. Stando alle informazioni raccolte, è noto che in almeno un caso gli Emirati siano riusciti ad avviare questa discussione.
Gli Uae non hanno negato quanto contenuto nella documentazione ottenuta dal giornale britannico, ma hanno invece sottolineato che i colloqui sono «privati». In questi giorni è anche cresciuto il sospetto che Abu Dhabi stia cercando di mettere radici in Africa, nel tentativo di creare una domanda importante ora che i Paesi europei cercano nuove soluzioni per un'energia più pulita.
Fondo sì o fondo no
Il punto è: nessuno fa abbastanza. Né i governi responsabili di miliardi di persone, né chi quest'anno ospita la conferenza, a cui partecipano 197 Paesi, migliaia di Ong, aziende e gruppi rappresentanti le fasce più giovani della popolazione mondiale. C'è il presentimento che, esattamente come l'anno scorso in Egitto, vincerà sull'interesse alla vita, quello economico. Il singolo sulla comunità. E il più ricco sul più debole.
E anche se fondi come quello per le perdite e i danni dovessero essere aperti dai Paesi più forti - tra inquinanti storici e inquinanti ancora in via di sviluppo come Cina e India - a favore di quelli più vulnerabili e che, di fatto, soffrono maggiormente i cambiamenti climatici nonostante siano quelli che hanno contribuito in minore misura a causarli, ci sarebbero ancora numerosi punti da chiarire e i precedenti ci dicono che il tutto potrebbe arenarsi.
Esempio lampante sono i 100 miliardi di dollari all'anno che i Paesi ad alto reddito si erano impegnati a devolvere nel 2009 - Cop15 - a quelli a basso reddito, perché potessero implementare nuove soluzioni in modo da adattarsi ai cambiamenti climatici. Il fondo avrebbe dovuto essere versato nella sua totalità entro il 2020, ma così non è stato. Gli Stati Uniti per esempio, che avrebbero dovuto versare in totale 40 miliardi di dollari, allo scorso anno ne avevano forniti a malapena 7,6.
Ma i punti critici di eventuali donazioni possono essere letti anche nel documento concordato ad Abu Dhabi il 4 novembre, dopo 11 mesi di stallo e criticità, che lo rendono facilmente attaccabile, cosa che concretizza la possibilità che il fondo non venga avviato come promesso nel 2024 e che le discussioni vengano rimandate al prossimo anno. I Paesi più vulnerabili hanno infatti già criticato la scelta della Banca Mondiale come organismo incaricato di amministrare i soldi. C'è la paura che, essendo i vertici decisi dagli Stati Uniti, i governi donatori abbiano un'influenza eccessivamente ampia sulla gestione, e che la banca in sé proponga delle commissioni troppo elevate a chi i soldi deve ritirarli.