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SUDANI bambini abbandonati in Sudan stanno aspettando una famiglia

12.07.23 - 06:30
Alcune settimane fa avevano scioccato le condizioni estreme di un orfanotrofio circondato dalla guerra, oggi i bimbi sono lontani dal fronte
Reuters
I bambini abbandonati in Sudan stanno aspettando una famiglia
Alcune settimane fa avevano scioccato le condizioni estreme di un orfanotrofio circondato dalla guerra, oggi i bimbi sono lontani dal fronte

KHARTUM - Non ci sono segnali di una fine del conflitto in Sudan. Da metà aprile la guerra, specialmente nello Stato della capitale Khartum, ha messo in fuga 2,2 milioni di persone e le continue violazioni delle tregue non permettono alle persone che si trovano nelle zone più calde (sono circa 500mila) di allontanarsi dalla propria abitazione, né alle organizzazioni umanitarie presenti sul posto di organizzare dei corridoi umanitari sicuri.

Alcune settimane fa ha particolarmente sconcertato la situazione di un orfanotrofio della capitale, in cui, a causa dell'impossibilità di consegnare delle provviste e dei farmaci, decine di bambini hanno perso la vita, molti dei quali non avevano neppure un anno. La struttura, in condizioni precarie ancora prima dell'inizio della guerra fra generali, beneficiava già di aiuti umanitari. Ma con l'inasprirsi del conflitto è diventato sempre più difficile verificare le condizioni effettive del centro e il numero delle piccole vittime.

A livello generale, è noto che più di duemila persone - dati del 9 giugno dell'Armed Conflict Location and Event Data Project - sono decedute nel conflitto. Per capire meglio la situazione attuale in cui versa il Paese abbiamo interpellato la Regional Chief of Programme and Planning Magdalena Bertolotti.

Innanzitutto, come sta?
«Bene, grazie. Però è un periodo molto intenso. Al momento abbiamo due urgenze a cui far fronte, ossia il terremoto in Siria e in Turchia e lo scoppio della guerra in Sudan. Tutti i nostri team sono presi, giorno e notte, soprattutto quelli che si trovano sul campo. Io mi trovo in Giordania, nell’ufficio regionale e da qui ci occupiamo anche del Sudan. Organizziamo soprattutto delle missioni di supporto per altri Paesi».

In un reportage Reuters è entrata negli orfanotrofi del Sudan, dove ha trovato pochissimi operatori e tanti bambini da soli. Molti, purtroppo, sono morti. Siete a conoscenza di questi casi? È comune nelle realtà di guerra?
«Il conflitto che è in corso ha colpito le infrastrutture, l’accesso ai servizi di base come assistenza sanitaria, acqua ed elettricità. Rispetto alla situazione sugli orfanotrofi, siamo molto preoccupati. Al momento sappiamo che 59 bambini hanno perso la vita, ma stiamo ancora verificando questo dato. Non è mai facile confermare queste informazioni in situazioni di conflitto di questo tipo. Il centro di cui si è parlato versava già in forti difficoltà e beneficiava già del nostro supporto. Con l’aggravamento del conflitto, ci siamo subito attivati per dare un sostegno maggiore a livello sanitario e nutrizionale».

Al momento non è possibile portarli via?
«I nostri team attivi sul campo sono riusciti a trovare una struttura adeguata e sicura. Non è stato facile in quanto ci sono stati attacchi anche in ospedali e in edifici pubblici. Il 6 giugno, Unicef e i suoi partner sono riusciti a ricollocare i bambini in un centro più sicuro a Medani. Al momento stiamo cercando famiglie affidatarie per questi bambini. Riuscire a portarli via è stata una scena talmente commovente che non la dimenticherò mai».

Che cosa possiamo fare per aiutare?
«Quello che consigliamo di fare è, se qualcuno vuole donare, di passare tramite Unicef, che ha attivato una richiesta di fondi dedicata a questa emergenza di circa 800 milioni di dollari per portare aiuto a 9,4 milioni di bambini. Lo consigliamo anche perché la nostra gestione dei fondi è sicura, come è sicuro che questi aiuti umanitari vengano distribuiti alle associazioni che si trovano in loco e con cui lavoriamo già. Bisogna ricordarsi che la situazione in Sudan è davvero difficile. Il Sudan si trova ad affrontare una crisi umanitaria catastrofica che, secondo le previsioni, si deteriorerà ulteriormente se i combattimenti non cessano immediatamente, spingendo le persone già vulnerabili in un ulteriore stato di disperazione e minacciando la vita di milioni di bambini. Una persona su due ha urgentemente bisogno di aiuto umanitario».

Verso quali Paesi si stanno spostando le persone?
«Ci sono persone che cercano di restare nelle proprie case o cercano rifugio dai loro vicini. Sappiamo però che 400mila persone hanno attraversato il confine e si trovano ora in Ciad, in Egitto, in Etiopia e Sud Sudan. In questi Paesi abbiamo anche gli strumenti necessari per raggiungerli alle frontiere e aiutarli nell’attraversamento».

Nella zona sono attivi dei trafficanti di esseri umani?
«Non ci sono ancora stati riportati casi di questo tipo. Ovviamente stiamo sempre cercando di confermare le informazioni in nostro possesso. Per il momento non abbiamo ancora registrato traffico, ma siamo molto attenti perché sono situazioni in cui i bambini richiedono ancora più attenzione e protezione».

A cosa somiglia la quotidianità delle persone?
«Non è facile da spiegare. Ci sono sempre dei saccheggi, delle zone in cui il conflitto è aperto. È una situazione molto caotica, soprattutto per i bambini, a cui cerchiamo di portare anche un supporto di tipo psicologico. Perché sono situazioni davvero traumatiche. Hanno dovuto lasciare tutto quello che avevano, la casa, la scuola. E vivevano già in una situazione precaria, in cui il contesto socio-economico è molto difficile».

È mai stata mostrata una volontà civile di fermare la guerra in corso?
«Non credo. Al momento le persone si stanno preoccupando delle loro famiglie, cercano di mettersi in salvo. Non possono lanciarsi in discussioni politiche che andrebbero fatte ad altri livelli. Le principali preoccupazioni della popolazione ora sono di cercare dell’acqua, da mangiare, un riparo».

Ci sono delle zone in cui non si riesce ancora ad accedere?
«Ci sono stati dei momenti in cui accedere a determinate zone è stato impossibile, in quanto il conflitto era molto attivo. In queste zone fortunatamente avevamo già degli uffici e quindi dei magazzini. Ciò ci ha permesso comunque di fornire immediatamente alla popolazione attraverso i nostri partner degli aiuti, dai medicinali alle forniture scolastiche».

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