L'Alta Corte di Londra ha dato il via libera all'istanza della difesa del fondatore di WikiLeaks per un nuovo appello contro l'estradizione
LONDRA - Julian Assange, cofondatore di WikiLeaks, ha ancora una carta da giocare per cercare di sfuggire alla contestatissima estradizione negli Usa, che gli danno la caccia da quasi 15 anni per aver diffuso documenti riservati del Pentagono e del Dipartimento di Stato contenenti non poche rivelazioni imbarazzanti.
L'Alta Corte di Londra ha infatti dato oggi il via libera all'istanza della difesa del giornalista australiano - respinta in primo grado - per un ulteriore, estremo appello di fronte alla giustizia britannica contro la consegna alle autorità d'oltre oceano.
I giudici di secondo grado, Victoria Sharp e Adam Johnson, hanno fissato il nuovo appello per maggio giudicando non infondate le argomentazioni della difesa sui timori per la vita di Assange. A meno che nelle prossime tre settimane le autorità americane e britanniche non siano in grado di produrre «rassicurazioni» ulteriori e più affidabili in materia, come si legge nel dispositivo della sentenza.
Rassicurazioni riguardanti il trattamento da parte della giustizia degli Usa, e quindi la possibilità da parte del cofondatore di Wikileaks di potersi appellare al primo emendamento della Costituzione degli Stati Uniti sulla tutela della libertà di espressione oltre alla garanzia di non venire condannato a morte.
Se fosse stato confermato il no di primo grado, invece, per Assange sarebbe scattato il termine massimo di 28 giorni per l'estradizione effettiva negli Usa, anche in presenza di un tentativo di ricorso alla Corte europea dei diritti dell'uomo.
I giudici dell'Alta Corte si sono presi più di un mese, dopo i due giorni di udienza in febbraio, per considerare le argomentazioni dei legali dell'attivista australiano, incentrate sull'idea di «una persecuzione contro la legittima attività giornalistica» e il rischio di una serie di diritti negati davanti alla giustizia americana con l'incubo di una condanna enorme di 175 anni di carcere, e quelle delle autorità statunitensi, decise a perseguire chi a loro avviso è andato «oltre i limiti del giornalismo».
Servirà però ancora tempo per conoscere la sorte del cofondatore di WikiLeaks e modello antagonista di giornalismo online: divenuto una sorta di nemico pubblico numero uno a Washington per essersi permesso di divulgare, a partire dal 2010, circa 700'000 documenti riservati - autentici e non privi di rivelazioni imbarazzanti, anche su crimini di guerra commessi fra Iraq e Afghanistan - sottratti al Pentagono o al Dipartimento di Stato.
Ma già ora Assange appare duramente provato: il mese scorso non solo non era riuscito a presenziare di persona alle udienze all'Alta Corte, ma anche ad assistervi in videocollegamento a causa dell'aggravamento di condizioni di salute sempre più precarie dopo quasi cinque anni di reclusione preventiva nel tetro carcere di massima sicurezza londinese di Belmarsh, seguiti ai sette da rifugiato nella clausura murata di una stanza dell'ambasciata dell'Ecuador nella capitale britannica.
E stando alle dichiarazioni recenti della moglie Stella, l'attivista non riuscirebbe a sopravvivere alle condizioni di detenzione in una cella americana.
Nei giorni scorsi era circolata la voce di un possibile patteggiamento offerto da Washington ad Assange, incentrato su una dichiarazione di colpevolezza da parte del giornalista per un reato meno grave. Si era detto che l'eventuale intesa gli poteva evitare l'estradizione negli Usa, spianandogli la strada verso la libertà, ma al momento non si è concretizzata.