Quello che sembrava un tema di nicchia sta scaldando gli animi. Le riflessioni dello psicanalista Daniele Ribola.
Insulti sui social, minacce, pressioni. Il rapporto tra uomo e natura sarebbe alla base di quanto sta accadendo.
BELLINZONA - Da una parte, contadini esasperati che chiedono di essere protetti dal lupo. Dall’altra, persone attive nel ramo forestale o della protezione della natura a cui i rispettivi datori di lavoro hanno imposto cosa votare, o come parlarne in pubblico. L’appuntamento alle urne sul tema della caccia, in programma per fine settembre, sembrava una questione di nicchia. Invece, sta scaldando gli animi un po’ in tutta la Svizzera italiana, e non solo. «Sono sorpreso – ammette Daniele Ribola, psicanalista e autore di pubblicazioni sul rapporto tra uomo e natura (ad esempio “L’orso e i suoi simboli”, Edizioni Magi, Roma) –. Non mi aspettavo un’emotività simile nel dibattito che porta al voto federale».
Non si può dire una virgola fuori posto sul tema in votazione. Perché?
«Siamo in un periodo in cui si sta prendendo consapevolezza del fatto che la salute del pianeta è in pericolo. Il recente appello di Papa Francesco, che ci ha invitati ad ascoltare la Terra, lo dimostra. Ascoltare la Terra significa che la si considera un soggetto vivente che ci parla, non un oggetto di consumo. Significa anche che dobbiamo fermarci e ripensare al nostro modo di interagire con la natura. Ma siamo così ottusi e infantili che di fatto, considerando la natura come qualcosa che noi possiamo utilizzare a nostro piacimento, stiamo mettendo in atto un vero e proprio suicidio collettivo».
Allude ai cacciatori?
«Non ce l’ho coi cacciatori. In un mondo in cui lo spazio naturale è quasi totalmente antropizzato, il ruolo dei cacciatori è importante. Potrebbero fungere da sentinelle della natura, da mediatori. Ad esempio, equilibrando la situazione di una specie che è in sovrannumero, ed evitando magari così anche il propagarsi di eventuali malattie. Ma i cacciatori possono anche diventare l’espressione della distruttività umana, di fronte al macello che stiamo operando nei confronti della biodiversità».
Le parole sono importanti. Lei parla di equilibrare…
«Esattamente. Trovare un equilibrio non equivale ad abbattere indiscriminatamente. L’arte venatoria ha una sua dignità. Ho l’impressione che alcuni cacciatori, però, si facciano prendere dall’avidità, come se gli animali fossero di proprietà dell’essere umano. È la stessa avidità che ci sta portando a distruggere il pianeta. È uno dei vizi tipicamente umani, che noi definiamo elegantemente come “legge di mercato”. Anche qui mi pare che Papa Francesco sia molto intelligente quando dice che “dobbiamo volere di meno”».
In alcuni ambienti lavorativi è stato imposto di votare in un determinato modo. E, nel caso si volesse votare il contrario, di non esprimere mai la propria opinione. Neanche nella vita privata.
«Questa è una cosa molto grave. Siamo in una nazione democratica. Io non mi voglio esprimere sulla votazione in sé. Ma la nostra idea della natura ha urgentemente bisogno di un ripensamento profondo. Impedire un dibattito interno su questa immagine, proprio negli ambienti in cui la natura è il soggetto principale, mi sembra criminale. È come se l’idea di ripensare il nostro rapporto con la natura ci facesse paura. Siamo come bambini viziati a cui i genitori hanno comprato troppi giocattoli e a cui un educatore saggio sta dicendo: “Con questo non devi più giocare, è dannatamente pericoloso"».
D’accordo. Però non si può negare che ci siano agricoltori a cui concretamente i grandi predatori hanno creato gravi danni.
«Se vogliamo preservare la biodiversità e se rispettiamo gli equilibri tra predatore e predato, gli allevatori si prendano cani adeguati e stiano sui pascoli a curare il bestiame. Se uno fa una scelta, la faccia fino in fondo».
Qualcuno l’ha fatto. Ed è stato duramente attaccato dai propri colleghi. Come lo spiega?
«Da noi gli ambienti agricoli e legati alla natura sono ottusamente conservatori. In altri Stati ho visto una creatività e un'immaginazione nettamente maggiori, con risultati notevoli. Quello che temo è l’eccessiva lentezza. Siamo troppo poco reattivi di fronte al tema del degrado ambientale, e la caccia è strettamente collegata a questo fenomeno. Ripeto, i cacciatori devono smetterla di fare i bambini irresponsabili e diventare i mediatori tra uomo e natura, perché più di altri la frequentano».
Il rapporto tra uomo e natura sembra essere al centro del dibattito. È così?
«L’uomo, nel corso dei secoli, si è dato libertà che forse non gli spettavano. Ora sono troppo radicate nella nostra mentalità. Mi accadde anni fa di uscire a pesca con una barca di pescatori nel Mar Egeo. Sulla costa un pescatore improvvisamente lanciò una bomba che fece una strage di pesciolini piccoli e medi, mentre i grossi galleggiavano intontiti. Esterrefatto, mi misi a inveire contro di lui. Mi rispose: “Calmati, stai tranquillo, non c’è problema, il mare è infinito”. Questa è la posizione dell’uomo oggi. Crediamo infantilmente che la Madre Terra abbia sempre latte in abbondanza, che non ci sia limite nello sfruttamento, mentre invece la nostra Madre è sfinita, e sta morendo. Ce lo sta dicendo, ma continuiamo a gridare, a lamentarci e a volere di più».