Rocco Bianchi, giornalista
La discussione sulla scuola media ticinese si è incanalata su un solo aspetto, il superamento -o meglio l’eliminazione- dei livelli. Un’evoluzione questa che, paradossalmente, nessuno o quasi contesta e sulla quale tuttavia il mondo politico ticinese si era arenato, dando vita allo squallido teatrino degli ultimi mesi, anche se forse (il dubitativo in simil casi è sempre d’obbligo, visto che stiamo parlando di sperimentazione, non di implementazione) con l’ultima decisione del Gran Consiglio ha finalmente trovato una strada per disincagliarsi.
Per farlo davvero tuttavia bisognerebbe finalmente esplicitare cosa si intende per scuola e di conseguenza le finalità desiderate. Dovrebbe in fondo essere esercizio facile, visto che queste sono già ampiamente descritte all’art. 2 della legge. In sintesi: promuovere lo sviluppo armonioso delle persone, educarle attraverso la trasmissione del sapere (corretta ma critica), promuovere principi come responsabilità, parità, democrazia, pluralismo ecc., ridurre gli ostacoli che pregiudicano tutto questo.
La discussione generale si è impantanata proprio su quest’ultimo punto: c’è chi punta prevalentemente sul recupero degli indubbi svantaggi socio-culturali, oltre che personali, che alcuni allievi hanno e chi invece, sottolineando le naturali differenze degli individui, vorrebbe percorsi formativi differenziati (alcuni molto, altri meno, alcuni solo all’interno delle singole materie, altri ipotizzando la formazione di nuovi ordinamenti scolastici…). Eppure la stessa legge sulla scuola all’art. 58 indica la via da percorrere: “Gli allievi hanno il diritto di ricevere un insegnamento conforme alle finalità della scuola e alle loro caratteristiche individuali”. Con buona pace della politichetta osservata in questi mesi, non si tratta quindi di scegliere tra una o l’altra strada, ma di trovare il modo di farle convivere in modo il più possibile armonioso.
L’alternativa è porsi al di fuori della legge, ossia cambiarla nelle sue finalità; se qualcuno lo desidera, è dunque giunta l’ora che lo proponga in modo chiaro, abbandonando questa guerriglia di logoramento che nulla giova e molto nuoce.
Fintanto che questo non avverrà, è bene concentrarsi sull’assunto di fondo, ossia come armonizzare un insegnamento di principio pubblico, dunque di massa e generalizzato, con le caratteristiche di ogni singolo allievo. Non sono un pedagogo, per cui sui modi di una possibile attuazione di questo assunto lascio volentieri la parola agli esperti. Mi preme qui comunque sottolineare un aspetto di cui poco si parla, eppure a mio avviso di non secondaria importanza: indipendentemente dal metodo usato e dalla materia, ad un certo punto il docente si troverà ad emettere dei giudizi sull’allievo (le famigerate e temute note). Stilerà insomma una classifica dividendo la classe tra gli ottimi, i buoni, i mediocri, gli scarsi e i molto scarsi. Se non è zuppa-livelli, è simil pan bagnato.
Ci impantaniamo quindi in un paradosso: da una parte chiediamo alla scuola di educare i nostri ragazzi nel senso etimologico di “ex ducere”, ossia portare fuori, esprimere il meglio di quanto in loro possesso, dall’altra li incaselliamo e li irreggimentiamo in statici compartimenti numerici, che de facto se non impediscono per lo meno ostacolano, e non poco, lo “sviluppo armonico delle persone” declamato all’art. 2 della legge, e rende vuoto di significato l’art. 58, in particolare nel punto in cui si parla di insegnamento “conforme alle caratteristiche individuali”.
Si tranquillizzino destra e centro-destra: non si tratta di abolire le valutazioni tornando magari al fantomatico e dannosissimo “4 politico” di sessantottesca memoria, ma piuttosto di trasformarle dall’accezione attuale, fortemente classificatoria, in una diversa, incline a focalizzarsi più sugli aspetti positivi che quelli negativi. In estrema sintesi, una valutazione che rispecchi soprattutto i progressi fatti dall’allievo durante l’anno, non solo come ora il livello (di nuovo!) delle conoscenze acquisite in funzione di uno standard identico per tutti.
Una valutazione diversa simile a quella in uso in praticamente tutti i Paesi che ci precedono nelle classifiche internazionali sulla qualità della scuola e simile anche a quella che gli allievi ritroveranno nel mondo del lavoro, dove le valutazioni degli uffici del personale e/o dei superiori tendono appunto a permettere ai collaboratori di capire quali siano i loro punti di forza e quali i loro punti deboli, in modo da permettere loro di migliorarsi.
Altro aspetto non trascurabile di una valutazione scolastica siffatta, i dati mostrano che là dove avviene agli allievi viene affiancato un servizio di sostegno molto più precocemente rispetto a quanto avviene da noi, sostegno che con il tempo va tuttavia calando in intensità e numeri, al contrario di quanto succede nella nostra scuola, dove invece con l’avanzare delle classi i numeri degli allievi in difficoltà e dunque bisognosi di misure di accompagnamento aumentano in modo quasi esponenziale.
In fondo è logico: se chiediamo alla scuola di abbandonare i livelli e di conseguenza di individualizzare il più possibile l’insegnamento focalizzandosi sugli obiettivi da raggiungere da parte di (quasi) ogni singolo allievo, per quale motivo la valutazione deve essere espressa solo da un numero assoluto, per di più dal significato identico per tutti? La contraddizione ci pare evidente, e deve perciò essere superata. Pena non solo il continuo incagliarsi politico in una discussione senza apparente via d’uscita, ma la difficoltà da parte di ogni allievo, scarso, mediocre, buono o ottimo che sia, di sviluppare appieno le proprie potenzialità. Come legge (e buon senso) comandano.