La scoperta, già pubblicata da Nature Immunology, è frutto di uno studio condotto dai ricercatori dell'IRB di Bellinzona
BELLINZONA - Non tutti gli autoanticorpi vengono per nuocere. E lo si può ben dire osservando quanto scoperto da un ampio gruppo di studio di cui hanno fatto parte anche i ricercatori dell'Istituto di Ricerca in Biomedicina di Bellinzona.
Partiamo da una premessa: nelle persone malate di Covid-19, gli anticorpi contro il coronavirus proteggono, mentre quelli che attaccano noi stessi - i cosiddetti autoanticorpi - sono invece nocivi. Esiste però anche una classe di autoanticorpi "buoni" che sono «associati a un decorso favorevole» della malattia e anche a un «minor rischio di long-Covid». Una scoperta inaspettata. «In precedenza si era osservato che gli autoanticorpi sono frequenti in malati Covid gravi, quelli che finiscono in cure intense. Invece in questo caso abbiamo scoperto l'opposto», ha spiegato, citato in una nota, Jonathan Muri, postdottorando dell'IRB e coautore dello studio.
La scoperta - frutto di un'ampia collaborazione che ha coinvolto ricercatori delle università di Zurigo e Berna, dell'IRCCS Istituto Clinico Humanitas e Humanitas University di Milano, dell'EOC, del Gruppo Ospedaliero Moncucco e di altri atenei di Stati Uniti, Regno Unito e Italia - è stata pubblicata di recente sulle pagine della rivista Nature Immunology.
Autoanticorpi come semafori
Ma come agiscono questi "autoanticorpi buoni"? Lo spiega la coautrice, anche lei postdottoranda dell'IRB, Valentina Cecchinato. Questi autoanticorpi neutralizzano le chemochine, che «sono un po’ come i semafori: dicono alle nostre cellule immunitarie quando e dove andare nel caso di un’infezione per combatterla».
«In presenza degli autoanticorpi, i semafori si bloccano e l’afflusso delle cellule che rendono cronica l’infiammazione diminuisce». In altre parole agiscono come una sorta di "estintore" sulla risposta infiammatoria. Perché il nostro sistema immunitario «in certi casi è un'arma a doppio taglio» ed «è importante attivarlo prontamente per neutralizzare il coronavirus, ma va anche spento al momento giusto, altrimenti può fare danni», come sottolinea la co-direttrice dello studio - e vice-direttrice dell'IRB - Mariagrazia Ugoccioni. È sufficiente infatti ritornare con la memoria alle fasi più critiche dell'emergenza pandemica per ricordare come nei reparti di terapia intensiva vi fossero tanti pazienti colpiti da un'infiammazione eccessiva indotta dall'infezione.
E in cosa si traduce concretamente, per ora, questa scoperta? Gli autoanticorpi contro le chemochine potrebbero avere un effetto antiinfiammatorio benefico. La loro presenza è infatti associata a un decorso più leggero della malattia e a rischi ridotti d'insorgenza di sintomi a lungo termine. Il cosiddetto long-Covid, appunto. Ma, afferma il co-direttore dello studio (e dell'IRB) Davide Robbiani, «il lavoro da svolgere è ancora molto».