Scandali politici, un algoritmo penalizzante, aumento dei costi per l’advertising: il social di Zuckerberg è a rischio?
Nella prima parte di questo lungo articolo abbiamo evidenziato, dati alla mano, il declino della reach organica dei post pubblicati su Facebook, cioè il calo netto della visibilità dei contenuti non a pagamento sulle pagine per le aziende. Un problema – almeno dalla prospettiva degli utenti e soprattutto dei brand e dei professionisti del marketing – che ha incrementato un senso diffuso di sfiducia nei confronti dell’azienda di Menlo Park, che nel tempo si è cristallizzato per via dei costanti cambiamenti prodotti sull’algoritmo di Facebook. In particolare quando, nel 2018, lo stesso Zuckerberg ha esplicitato - annunciando l’ennesima revisione - una linea strategica netta e irreversibile: creare maggiore equilibrio nella distribuzione dei contenuti, limitando quelli prodotti da brand commerciali e aziende editoriali. Questo si traduceva, in sostanza, in una portata organica ulteriormente depotenziata per istituzioni, organizzazioni, aziende.
PRIVACY E DATI: LA VIOLAZIONE PIÚ IMPONENTE DELLA STORIA DEI SOCIAL
A questo si è sommato, poi, un altro problema – serissimo - per l’immagine del “Gigante Blu”: la fuga di dati più significativa della storia di Facebook. Fatto meglio noto come lo scandalo Cambridge Analytica, una storia che ha destato l’interesse dell’intero universo mediatico globale, soprattutto per le implicazioni politiche direttamente o indirettamente collegate a questa vicenda. Che racconta di milioni di dati estratti senza il consenso degli utenti (circa 87 milioni di account) e utilizzati per ottimizzare flussi di comunicazione politica e propagandistica, facendo emergere una possibile influenza in due appuntamenti elettorali di primissimo piano: il referendum per la Brexit e le presidenziali Usa del 2016.
FACEBOOK NEL MIRINO
Uno “scherzetto” che è costato a Facebook una sanzione di cinque miliardi di euro: multa senza precedenti nell’ambito della privacy e della violazione dei dati. A cui si è sommato, chiaramente, un danno d’immagine che ha inasprito il senso di sfiducia degli utenti (date un’occhiata a questo sondaggio pubblicato in quel periodo su The Atlantic) e che ha generato, per il primo social media al mondo, una perdita di 60 miliardi di dollari nella sola settimana in cui i fatti in questione sono rimasti al centro della scena mediatica mondiale. Una catastrofe, certo, che sommata ai problemi già esposti avrebbe potuto sancire l’inizio della fine.
MA FACEBOOK NON È MORTO. TUTT’ALTRO.
Il condizionale, però, non lo abbiamo scelto casualmente, perché Facebook, nonostante tutto, è stato capace non solo di uscire sostanzialmente indenne da quel periodo nerissimo; ma addirittura – salvo una lieve diminuzione di utenti nel 2018 – ha continuato a crescere. In termini d'iscritti, certo. Ma soprattutto di profitti.
Suonerà come un paradosso, ma a pagare, anche in conseguenza del boato prodotto da Cambrige Analytica, sono state ancora una volta le aziende. Tra voi saranno molti a chiedersi come sia stato possibile. Le risposte sono le seguenti. Il calo di utenti, innanzitutto: perché se il pubblico si assottiglia, si assottiglia anche la portata dei post. Ma c’è di più: il problema dei dati e della privacy degli utenti, diventato a quel punto centrale, ha indotto l’azienda a rivedere – e in certi casi a eliminare – alcuni strumenti analitici che erano molto utili per aziende e professionisti nel processo di targeting, quindi nell’individuazione di pubblici mirati. Tradotto: costruire messaggi altamente pertinenti è diventato sempre più difficile, e i margini di errore ancora più elevati. Questo, logicamente, produce un’ulteriore conseguenza: i costi dell’advertising su Facebook sono aumentati.
UN SOCIAL NETWORK IRRINUNCIABILE
Sì, siamo arrivati al dunque, cioè alla domanda chiave di questo lungo approfondimento diviso in due parti: questo scenario complesso ha disincentivato gli investimenti dei brand su Facebook? No, affatto.
La ricerca accademica che ha ispirato questo articolo lo ha certificato senza mezzi termini. Perché dimostra che le aziende - soprattutto quelle di “taglio” medio-piccolo - nonostante tutte le criticità emerse sul social media più famoso e frequentato al mondo, ritengono Facebook imprescindibile. C’è una diffusa consapevolezza della necessità di doversi adeguare alle difficoltà e ai continui cambiamenti - in termini di tecniche e di strategie da adottare - che avvengono in un flusso incessante di revisioni, aggiornamenti ed evoluzioni degli strumenti. Un rischio costante, che buona parte dei brand è disposta ad assumersi perché, in fondo, Facebook è una piattaforma che, come nessun altro social media, garantisce visibilità e un altissimo potenziale di pubblici “in target”. La ricerca in questione risale al 2020: un anno più tardi c’è un’inversione di tendenza?
No, i dati del secondo trimestre del 2021 spazzano via ogni eventuale dubbio:
Una sentenza.
La piattaforma di Mark Zuckerberg continua a essere la prediletta dalle aziende e dai marketer, che non a caso stanno continuando a investire soldi e tempo su Facebook. Nonostante il crollo della reach organica, gli scandali politici, il problema dei dati e la guerra aperta con Apple.
Quello che però insegna questa vicenda, insieme alle dinamiche che abbiamo snocciolato e a quelle che in prospettiva potrebbero manifestarsi nel tempo, è che l’evoluzione del social media richiede processi di management sempre più sofisticati per ottenere un ritorno degli investimenti in linea con gli obiettivi delle aziende. Ed è per questo che noi, ogni giorno, puntiamo a ottimizzare e a raffinare le nostre strategie, allo scopo di valorizzare e rendere proficua la presenza online (anche grazie alle grandi potenzialità di Facebook) di decine tra aziende e professionisti, per accrescere il loro business.
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