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Per fuggire dalla Corea del Nord, una vita da schiave in Cina

Un viaggio della speranza che si trasforma in matrimoni combinati forzati e sfruttamento sessuale. Un dramma nascosto che continua da anni.
Un viaggio della speranza che si trasforma in matrimoni combinati forzati e sfruttamento sessuale. Un dramma nascosto che continua da anni.

Ci sono incubi così terrorizzanti che, dibattendoci nel sonno, non desideriamo altro che di svegliarci e ritrovare la nostra confortante realtà. Ci sono persone, invece, che dal loro incubo non si svegliano mai e, nel tentare di mettersi in salvo dalla paura provata in sogno, finiscono per vivere una situazione ancora peggiore.

In qualche modo è ciò che accade a migliaia di donne nordcoreane che, per sfuggire a una vita fatta di privazioni e violenze sotto un regime dittatoriale, fuggono in Cina dove diventano schiave nel mercato del sesso o arruolate per qualche lavoro sottopagato in complessi industriali dove sono ancora vittime di abusi e violenze.

La Cnn ha di recente pubblicato un approfondito reportage sul tema che racconta le vicende di Chae-ran, nome di fantasia per ragioni di sicurezza, una trentacinquenne nordocoreana scappata, ad appena diciassette anni, in Cina per sfuggire a un massacrante lavoro in miniera. Una volta superato il confine, grazie all'aiuto di una delle tante persone che ricavano soldi nell'organizzare tali tipi di fughe, la giovane e una sua compagna di fuga, vennero caricate in auto e portate nella Cina nordoccidentale dove le fu data l'alternativa di prostituirsi con gli avventori di un bar o di sposare un uomo cinese.

Imago/Kyodo NewsUna lavoratrice nordcoreana, in uno dei dormitori delle fabbriche a Dandong (Cina).

Noto a tutti, ma nessuno segnala

«Volevo piangere - racconta alla Cnn la donna - ma sapevo che nulla poteva cambiare se lo avessi fatto. Pensavo di non poter lavorare in un bar, quindi avevo solo un'unica opzione: sposare un uomo cinese». Si trattava di un contadino di otto anni più grande di lei che la condusse in un villaggio nella provincia nord-orientale di Hebei, «con case fatte di fango e pietre e le finestre non avevano vetro ma carta sottile. Sembravano più poveri della mia famiglia».

«Non mi piaceva perché era basso ma avevo paura di essere venduta di nuovo perciò sono rimasta tranquilla» racconta la donna che, dopo appena otto mesi dal suo arrivo al villaggio, rimane incinta e, seppur angosciata dall'idea di portare avanti una gravidanza non voluta, «quando ho visto il mio bel bambino ho cambiato idea».

Durante la sua permanenza in Cina, Chae-ran ebbe modo di conoscere altri nordcoreani fuggiti dal proprio Paese e, nonostante la presenza di una moglie nordcoreana «sia un fatto noto a tutta la comunità locale», così come affermato dal rapporto KFI, raramente ciò viene segnalato alle autorità competenti perché la maggioranza delle persone è concorde nel ritenere tale tipo di pratica come uno strumento valido per colmare la differenza numerica tra uomini e donne in Cina. La politica del figlio unico, e la tragica pratica di sopprimere le neonate femmine, hanno portato a un problematico divario numerico tra i due sessi che si cerca di risolvere con l'organizzazione di matrimoni combinati.

Imago/YonhapUn gruppo di ragazze nordcoreane all'aeroporto di Pechino, in attesa di rimpatrio in Corea del Nord.

Maritate contro la loro volontà, o sfruttate sessualmente

Secondo il rapporto di Korea Future Initiative del 2019, come riferito da Asia News, il 60% circa delle donne nordcoreane presenti in Cina sono state vittime di sfruttamento sessuale, che si tratti di prostituzione, matrimoni combinati o cybersex. Secondo i dati raccolti dall'organizzazione, tra il 2015 e il 2018, oltre il 30% delle donne sono state vendute per dei matrimoni combinati, e il 15% di loro sono state costrette a svolgere delle attività sessuali online.

Si tratta di ragazze di età compresa tra i dodici e i ventinove anni, anche se possono essere ancora più giovani, rapite e vendute in Cina o direttamente dalla Corea del Nord. Molte di loro sono costrette a prostituirsi nei bordelli dei quartieri industriali della Cina nordorientale, dove si concentra la maggior parte dei lavoratori stranieri, mentre altre sono fatte sposare, per una cifra che può arrivare anche a cinquanta mila yen, oltre sei mila euro, con uomini provenienti dalla Cina rurale. Vi sono poi minorenni, anche di nove anni, che vengono fatte prostituire davanti a una webcam per clienti paganti, provenienti soprattutto dalla Corea del Sud.

Queste donne, vendute al marito di turno, vivono nell'anonimato, incapaci di parlare il cinese, sprovviste di documenti e tallonate dal terrore di poter essere rimpatriate in Nord Corea dove la punizione per i rifugiati e i migranti economici prevede la tortura, il carcere e, secondo gli attivisti, anche la morte. L'essere sprovviste di documenti rende queste donne particolarmente vulnerabili, impossibilitate ad accedere al mercato del lavoro o all'assistenza medica, e incapaci di muoversi in autonomia e liberamente.

Imago/Kyodo NewsDue cameriere nordcoreane in attesa di clienti, in un ristorante a Dandong (Cina).

Il mercato dei permessi di soggiorno

Secondo quanto riferito dalla Cnn, in alcune provincie della Cina le autorità locali hanno iniziato a concedere dei cosiddetti 'permessi di soggiorno' alle donne nordcoreane sposate con uomini cinesi, il cui prezzo «è considerevole». Secondo quanto affermato da Kim Jeong Ah, una ex rifugiata nordcoreana e dirigente dell'organizzazione Rights for Female North Koreans, Rfnk, «non si tratta di carte d'identità ufficiali ma di meri documenti utilizzati dalle forze pubbliche cinesi ai fini di controllo e sorveglianza». Se è infatti possibile, per chi li detiene, di potersi spostare, lavorare o farsi curare all'interno di una certa regione, ciò non vale al di fuori del proprio territorio di residenza.

Se il marito rifiuta di pagare questi documenti, così come accaduto a Chae-ran, si vive nella paura di essere denunciati o di incorrere nelle maglie della burocrazia o delle forze dell'ordine, con l'incubo di essere rimpatriati in Corea del Nord. La piaga della tratta di esseri umani, come visto, è molto diffusa e migliaia di donne nordcoreane in fuga dal proprio paese sono state vendute e schiavizzate da affaristi senza scrupoli.

Come raccontato da Pyon nello studio di Korea Future Initiative «sono stata venduta al titolare di un bordello con altre sei donne nordcoreane. Non ci hanno dato molto cibo e siamo state trattate male. Dopo otto mesi la metà di noi è stata nuovamente venduta», mentre Kim, un'altra sopravvissuta alla tratta di donne, ha confermato che dietro questi loschi giri di affari si nascondono spesso degli imprenditori sudcoreani: «Ci sono molti sudcoreani a Dalian, in Cina, che mettevano volantini pubblicitari in lingua coreana-racconta la giovane-le aziende sudcoreane vogliono prostitute nordcoreane per i loro uomini d'affari. La prostituzione è stata la mia prima esperienza d'incontro con una persona proveniente dalla Corea del Sud».

Imago/Kyodo NewsDonne nordcoreane impiegate in una fabbrica di Dandong (Cina).

Un'odissea che termina anche nelle fabbriche

Gli abusi e lo sfruttamento a cui sono sottoposte le donne nordcoreane in Cina, riguardano anche le condizioni di vita di migliaia di lavoratori provenienti anch'essi dalla Corea del Nord arruolati nelle fabbriche cinesi. Una inchiesta realizzata dal premio Pulitzer Ina Urbina per The New Yorker, in collaborazione con The Outlaw Ocean Project, una organizzazione no profitt che indaga sui crimini commessi in acque internazionali, ha messo in luce la condizioni di semi schiavitù in cui versano questi operai, costretti a turni massacranti anche di 16 ore consecutive, con stipendi trattenuti dai manager quale ricatto per non indurli ad abbandonare la Cina, percossi e vessati in ogni modo possibile.

Ai questi lavoratori nordcoreani non vengono garantite ferie e giorni di malattia, e possono usufruire di un solo giorno di riposo al mese. Oltre la metà delle lavoratrici intervistate ha inoltre dichiarato di aver subito abusi sessuali da parte dei propri superiori. “Il 60-70% di noi è depresso. Ci siamo pentiti di essere venuti in Cina, ma non potevamo tornare a mani vuote” ha raccontato un'operaia di una industria ittica a Dandong.

Non sono infrequenti anche i casi di suicidio che vengono tenuti nascosti per evitare che la notizia diventi pubblica, ingenerando ulteriore malcontento tra i lavoratori degli stabilimenti ittici, la maggior parte dei quali è coinvolto in questa forma di lavoro forzato. Come spesso accade, si è tentati di ritenere questi problemi lontani dalla nostra realtà se non fosse che l'inchiesta riportata ha seguito la filiera dei prodotti ittici provenienti dalla Cina, e ottenuti dalla sfruttamento della manodopera nordcoreana, per scoprire che vengono usati da note catene, quali McDonald e Carrefour, anche nel continente europeo.


Appendice 1

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Imago/Kyodo NewsDue cameriere nordcoreane in attesa di clienti, in un ristorante a Dandong (Cina).

Imago/Kyodo NewsDonne nordcoreane impiegate in una fabbrica di Dandong (Cina).

Imago/Kyodo NewsUna lavoratrice nordcoreana, in uno dei dormitori delle fabbriche a Dandong (Cina).

Imago/Kyodo News

Imago/YonhapUn gruppo di ragazze nordcoreane all'aeroporto di Pechino, in attesa di rimpatrio in Corea del Nord.

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