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LUGANOIl cinema «spesso racconta in anticipo» la società «e non viene capito»

09.10.24 - 06:30
A colloquio con Daniele Gaglianone, regista italiano che al Film Festival Diritti Umani Lugano sarà giurato e terrà una masterclass
IMAGO / Sipa USA Collection
Il cinema «spesso racconta in anticipo» la società «e non viene capito»
A colloquio con Daniele Gaglianone, regista italiano che al Film Festival Diritti Umani Lugano sarà giurato e terrà una masterclass

LUGANO - «"La mia classe" di Daniele Gaglianone è un’opera civile, politica e felicemente sbilenca, irrisolta, eppure audace, coraggiosa, spudorata nella propria voglia di sbattere la testa contro il muro di tutto quanto la società civile nasconde sotto il tappeto della falsa coscienza, delle buone maniere, dell’impegno di facciata». Partiamo da questa definizione dell'attuale direttore artistico del Locarno Film Festival, Giona A. Nazzaro, per affrontare con Daniele Gaglianone le tematiche della masterclass in programma sabato 19 ottobre alle 11 al Cinema Iride di Lugano, in collaborazione con CISA - Conservatorio Internazionale di Scienze Audiovisive, nell'ambito del Film Festival Diritti Umani Lugano. Dopo la proiezione del film seguirà un dialogo con studenti e pubblico.

Partendo dalle parole di Nazzaro, c'è un'ipocrisia nel racconto dei diritti umani dalla quale bisogna rifuggire?
«Credo che specialmente chi vive in Occidente - qualora sia portato a riflettere sulla condizione umana e sociale di tutti - debba fare i conti con delle contraddizioni che, in altre parti del mondo, non esistono. Viviamo in una società sempre più schizofrenica, con un modello di civiltà chiaramente in crisi. Siamo dentro una auto-narrazione della società che, spesso, non trova più riscontro nel reale. Siamo la parte di mondo che si racconta come un modello esemplare, come se tutti volessero vivere come noi».

Non è così, gli esempi non mancano.
«Pensiamo solo a quella grande contraddizione nella società data dai migranti. Arrivano in Italia, in Germania, in Svizzera dopo aver superato una serie di ostacoli e gli si riconosce tutta una serie di diritti. Per farlo, devono oltrepassare fisicamente delle zone che sono ipocritamente considerate delle "no man's land", come il confine tra Croazia e Bosnia. Che non lo sono affatto: sono parte integrante della politica sulla migrazione europea. I poliziotti croati che pestano e torturano persone che avrebbero diritto a chiedere asilo sono pagati dall'Ue. Ce la cantiamo e ce la suoniamo e poi, in modo più o meno candido, ci chiediamo perché il resto del mondo spesso ci odia».

Il cinema è efficace nel raccontare questa evoluzione della società? Lo fa in maniera puntuale o arriva un po' in ritardo?
«Ho l'impressione che spesso arrivi in anticipo e non venga capito. Magari è poco elegante parlare di sé, ma proprio "La mia classe" che ha citato prima abbia avuto, come dire, la sfortuna di uscire troppo presto».

"La mia classe", lo ricordiamo, è del 2013.
«È avanti di una decina d'anni. Molti non capirono che non è un film su di "noi" e su di "loro", è un film su tutti noi. A un certo punto uno degli studenti chiede al regista perché sta facendo un film dove il professore è buono, se nella realtà non ci comportiamo nello stesso modo. La risposta del regista è: "Ma io che ci posso fare? Le regole sono queste". Dunque, che cosa siamo? Cosa vuol dire prendersi la responsabilità di raccontare delle storie, soprattutto se nascono dal sangue, dalla carne viva delle persone? Questo e altri film sono, per fortuna e purtroppo, sempre di moda».

Il che ci porta a parlare di memoria. La società attuale le riserva la giusta importanza?
«Credo che il problema della memoria storica sia molto serio, benché mi dispiaccia essere pessimista. Fisiologicamente, man mano che ci si allontana da un determinato periodo è fatale che questo diventi sempre più sfocato. Ecco che negli Usa vediamo libri di testo, presenti in alcuni stati, dove c'è scritto che la schiavitù è stata un'occasione per i neri per aumentare le proprie skill. Sembra un pezzo dei Monty Python, ma non lo è. La memoria storica dà segno di crisi irreversibile quando la storia è usata come clava, senza criterio. Anche chi si definisce progressista cade in questa trappola: penso ad alcune assurde derive della cancel culture».

È il problema di una società che tende a banalizzare tutto e non sa più affrontare la complessità?
«Di fronte a situazioni complesse si cercano risposte semplicistiche. Lo fa la destra, quella più becera, ma anche altri che risolvono tutto con una capriola sintattico-linguistica».

Il cinema, tramite il racconto degli avvenimenti, può avere un influsso diretto sulla realtà, può cambiare le cose?
«Dipende da ciò che intendiamo come "cinema". Se lo intendiamo come sistema, il suo impatto sulla società è molto minore rispetto al passato. Ma se intendiamo come cinema l'utilizzo di un linguaggio, forse oggi è addirittura troppo soverchiante. Chi ha fatto la ripresa di George Floyd ucciso dalla polizia ha fatto, in un certo modo del cinema. Quella ripresa ha spostato gli equilibri. L'immagine, con tutti i suoi rischi, sta diventando l'unico veicolo possibile per relazionarsi con il mondo, a discapito ad esempio della letteratura e della parola scritta. Questa, secondo me, non è una cosa positiva».

Lei è membro della giuria del Festival. C'è un principio che applicherà, quando si troverà di fronte alle opere in gara?
«È la mia prima volta come giurato in un festival con una prospettiva così specifica sui diritti umani. Ma stiamo pur sempre parlando di cinema: la prima cosa di cui terrò conto è la qualità del film. Se il tema è importante, ma affrontato in modo non convincente dal punto di vista cinematografico... Secondo me è il cinema che deve vincere. Voglio essere uno spettatore, prima che un giurato».

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