Deportazioni nei campi di concentramento, sterilizzazioni forzate, matrimoni combinati.
Settembre 2019. Un video girato da un drone e postato su YouTube sconvolge l’opinione pubblica internazionale. La registrazione ritrae centinaia di uomini bendati, rasati, fatti inginocchiare in una stazione e costretti da gruppi armati di polizia a salire su dei treni. Le immagini sembrano provenire da un altro mondo o da un’altra epoca, invece sono state girate in Cina, nel ventunesimo secolo. Le persone inginocchiate sono uiguri, un’etnia turcofona di religione musulmana che vive nello Xinjiang, regione situata nell’ex Turkestan orientale, a nord-ovest del Paese.
Perché quegli uomini sono bendati e rasati? Dove sono diretti i treni su cui vengono obbligati a salire? Quando, durante uno show televisivo della BBC, il conduttore pone queste domande all’ambasciatore cinese nel Regno Unito, Liu Xiaoming, quest’ultimo non risponde. “Non so da dove provenga questo video”, si limita a commentare, laconico. Ma una serie di inchieste, articoli di prestigiose testate e testimonianze dirette rivelano una verità agghiacciante. E’ in atto una persecuzione di massa, in Cina, e le vittime sono milioni di donne, uomini e bambini appartenenti ad un’etnia con un nome difficile da pronunciare (e quindi da ricordare) per chi vive in Europa. Le testimonianze dei sopravvissuti - quelle, però - una volta sentite non si dimenticano facilmente. «Chiunque ascolti un testimone, diventa testimone» ha affermato Kelley Currie, ambasciatrice generale per i diritti delle donne presso le Nazioni Unite durante un panel online organizzato da Campaign For Uyghurs.
Facciamo un passo indietro - Lo Xinjiang (pronuncia: “Shinjang”, tradotto: “Nuova Frontiera”) è una regione autonoma della Repubblica Popolare Cinese, fondata nel 1955 e situata nella parte nord-occidentale della Cina, nel territorio dell’ex Turkestan orientale. Fu qui che Marco Polo mise piede per la prima volta quando arrivò in terra mandarina, alla fine del 1200. In ragione della sua collocazione geografica (confina con Russia, Tibet, Mongolia, Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan, Afghanistan, Pakistan e Kashmir), lo Xinjiang ospita diverse etnie che si distinguono per lingua, cultura e religione dalla maggioranza cinese han. Gli uiguri costituiscono la fetta più consistente di questo coacervo di minoranze. Differenza culturale, culto religioso e collocazione geografica (lo Xinjiang è situato in un punto altamente strategico della Via della Seta) sono stati fattori rilevanti nella determinazione di gravi attriti tra l'establishment cinese ed il popolo uiguro (ma anche kazako, ndr). “Gli uiguri in Cina non hanno mai avuto vita facile - spiega Rushan Abbas, uigura residente negli Stati Uniti e fondatrice dell’organizzazione Campaign for Uyghurs - ma la loro situazione è sensibilmente peggiorata nel 2010, con la nomina del nuovo leader del Partito Comunista nello Xinjiang Zhang Chunxian, e poi nel 2016/17, con l’intensificarsi di sanzioni, controlli e deportazioni di massa nei campi di prigionia”.
Spostamenti registrati - Dal 2010, con il pretesto di reprimere il radicalismo islamico che negli anni precedenti aveva portato ad alcuni attentati in Cina, Chunxian adottò una politica repressiva della libertà di culto nello Xinjiang, proibendo il Ramadan e l’utilizzo di capi d’abbigliamento tipici (come il velo) nei luoghi pubblici. Venne inoltre limitata la mobilità degli uiguri attraverso la creazione di “passaporti interni” su base esclusivamente etnica (i cinesi han non ne avevano bisogno), in modo da registrare qualsiasi spostamento da città a città e da regione a regione. Nei principali centri abitati vennero istituiti appositi checkpoint; i quartieri a maggioranza uigura vennero recintati, e sulle porte delle loro abitazioni furono apposti dei codici QR attraverso i quali le autorità potevano verificare i residenti “autorizzati” in ciascun appartamento.
Sterilizzazioni coatte - Stando a tutte le fonti intervistate e alla documentazione consultabile su New York Times, Associated Press, BuzzFeed, The Economist e le diverse organizzazioni citate in questo articolo, le deportazioni nei campi si sarebbero intensificate a partire dal 2016/2017. Quanto ai campi, attualmente ospitano tra gli 1,8 ed i 3 milioni di uiguri. «La persecuzione non avviene solo tramite deportazione, ma anche - ed in larghissima scala - tramite sterilizzazione forzata delle donne, iniezione di metodi contraccettivi, pratiche di aborto e infanticidio», spiega Olivia Enos, analista senior presso l'Asian Studies Center del think tank americano The Heritage Foundation. Secondo l’esperta, le sterilizzazioni coatte e l’assunzione/impianto di agenti contraccettivi riguarderebbero tra l’80 ed il 90% delle donne: un dato che mostra quanto la sopravvivenza dell’etnia uigura sia gravemente a rischio. «La cancellazione del popolo uiguro in Cina avviene per mezzo di due strategie fondamentali: eliminazione fisica e assimilazione culturale», aggiunge Dinlur Reyahn, uigura residente a Parigi e fondatrice dell’Istituto Uiguro d’Europa. «Oltre alle sterilizzazioni e agli aborti sono anche ampiamente praticati i matrimoni forzati, gli allontanamenti familiari e veri e propri tentativi di lavaggio del cervello all’interno dei campi di concentramento, oltre alla tortura fisica, anch’essa ampiamente utilizzata», continua la studiosa. E affonda: «Il prezzo da pagare per avere una vita normale è rinunciare alle proprie tradizioni, al proprio credo religioso e alla propria identità, abbracciando in toto lo stile di vita han».
Campi oscurati ai satelliti - Ma dove si trovano fisicamente i campi di detenzione (o “concentramento”, stando alle precisazioni di tutte le intervistate)? Individuarli non è semplice come potrebbe sembrare, perché negli ultimi 10 anni la Cina si sarebbe servita di tutti i suoi mezzi tecnologici e informatici per tenerli segreti. Un’inchiesta di BuzzFeed pubblicata ad agosto 2020, però, ha gettato nuova luce sulla questione. Nel lungo articolo scritto a sei mani con l’aiuto di esperti informatici, tre giornalisti hanno rivelato il sistema di oscuramento che ostacola l’individuazione di prigioni e luoghi sensibili per via satellitare su tutto il vasto territorio dello Xinjiang. Partendo dai campi già noti al pubblico grazie a precedenti inchieste, gli autori si sono accorti che ognuno di essi (tranne uno, non più attivo) erano nascosti sul sistema di mappatura cinese Baidu Map (il corrispettivo mandarino di Google Earth, ndr). Al posto dell’immagine reale, zoomando sul punto in questione appariva infatti un riquadro bianco, che rendeva impossibile identificare le strutture presenti.
315 centri di detenzione - «Quando abbiamo iniziato, si riteneva che ne esistessero circa 1200 in attività (di campi di concentramento, ndr), ma solo qualche dozzina era stata individuata. Volevamo trovare gli altri» scrive BuzzFeed. Alla fine, i punti oscurati rilevati su Baidu Map erano ben 5 milioni e includevano, secondo gli autori, tutti i luoghi sensibili dello Xinjiang (ivi comprese le prigioni, ma non solo). Come fare, allora, per trovare quello che interessava a loro - i campi - ? Il risultato è stato raggiunto tramite un’analisi comparativa di altri sistemi di mappatura satellitare, quali Google Earth, the European Space Agency’s Sentinel Hub e Planet Labs, e mettendo a confronto i campi precedentemente scoperti con quelli sospettati di esserlo. Alla fine, i luoghi individuati come centri di detenzione su base etnica per uiguri e kazaki sono stati 315, che a loro volta conterrebbero più luoghi di prigionia al loro interno. I giornalisti hanno poi messo in evidenza il fatto che quasi tutti si trovano vicino a centri abitati, per rendere più agevole il trasporto di staff e prigionieri e facilitare l'approvvigionamento dei servizi necessari, come elettricità, cibo, acqua e altro.
Cosa accade all'interno? - Schermati da potenti sistemi di sicurezza, protetti da filo spinato, non è facile sapere con esattezza cosa accada all’interno di questi luoghi. Attualmente ci si basa solo sulle testimonianze dei sopravvissuti o dei loro familiari residenti all’estero. Fra loro, ci sono moltissime donne. Intervistarle non è sempre semplice, sia per via dell’esperienza traumatica della quale si chiede loro di rendere conto, sia a causa della barriera linguistica, che richiede l’intervento di interpreti. Nel corso degli anni, però, sono nati diversi movimenti di protesta uigura, e dal 2019 molte nuove voci si sono levate, rompendo la cappa di silenzio intorno a questo tema. Come già accennato, un fattore degno di nota che caratterizza la campagna uigura consiste nell’alto numero di leader femminili al suo interno. Sono loro, le donne, ad avere subìto in massima scala gli abusi della persecuzione cinese ed è con loro che, oggi, è inevitabile confrontarsi se si vuole affrontare da vicino la questione.
L'inizio di un incubo - Zumrat Dwut è una donna uigura riuscita a fuggire da un campo di detenzione grazie al marito, un cittadino pakistano. Con l’aiuto di un interprete ha fornito la sua testimonianza in occasione di un panel online organizzato da Campaign for Uyghurs il 10 settembre 2020. «Sono una donna uigura e, in quanto tale, sono stata presa di mira dal governo cinese» esordisce. «Mi hanno portata via durante un normale sabato di inizio primavera. Mentre mi trovavo a casa, ho ricevuto una telefonata dall’amministrazione regionale, in cui mi si chiedeva di recarmi urgentemente presso i loro uffici. Non potevo immaginare che era l’inizio di un incubo». Zumrat Dwut racconta di essere stata condotta in una struttura di detenzione e interrogata sul marito pakistano e sui movimenti di denaro sul suo conto bacario. Dopo avere trascorso qualche ora in una cella isolata, Zumrat racconta di essere stata portata in un ospedale: «Mi hanno fatta stendere su un lettino e sono stata sottoposta ad alcuni esami interni. Poi mi hanno fatto alzare, hanno preso le mie impronte digitali e scansionato l’iride».
Torture, e indottrinamento - Continua: «Dal momento dell’interrogatorio agli esami medici, non mi è stato dato nè cibo nè acqua». Dopo la visita in ospedale, Zumrat racconta di essere stata bendata, fatta salire su un mezzo di trasporto e portata in un campo di concentramento. «Appena arrivata, mi è stato ordinato di togliermi i vestiti e di sostituirli con gli abiti della prigione. Ho dovuto farlo davanti a 3 uomini della polizia, poi sono stata portata in una cella con altre detenute. Avevamo un solo bagno in comune per tutte. C'erano telecamere ovunque, che monitoravano ogni nostro movimento». Nel campo di prigionia, Zumrat racconta di avere subito torture fisiche e percosse. «Tutti i giorni dovevamo seguire delle lezioni sul PCC (Partito Comunista Cinese) e ci veniva ripetuto di lodare il Partito e rendere grazie a Xi Jin Ping». Stando ad altre testimonianze, questo tipo di indottrinamento sembra essere una pratica molto diffusa all’interno dei campi di concentramento, particolarmente efficace sui bambini. «Le torture fisiche quotidiane e il monitoraggio continuo a cui eravamo sottoposti ci impedivano di tentare qualsiasi tipo di ribellione», continua Zumrat. «Venivamo sottoposte a terapie mediche sconosciute. Ogni giorno ci veniva imposto di ingerire una pillola bianca. Le guardie controllavano con attenzione che le ingoiassimo senza nasconderle sotto la lingua. Dopo qualche tempo dall’assunzione, cominciammo tutte a sentirci male e il nostro ciclo mestruale s’interruppe». Oltre alla pillola bianca, Zumrat racconta che una volta alla settimana alle detenute veniva fatta una puntura. «Ci dissero che si trattava di un vaccino contro un’infezione. Ma dopo ogni puntura, mi sentivo terribilmente stanca e vuota».
Sterilizzazione forzata - La parte più dolorosa di questa esperienza consiste però nella sterilizzazione forzata, avvenuta in seguito alla liberazione di Zumrat dopo due mesi di detenzione, grazie agli sforzi del marito pakistano. Madre di tre figli, Zumrat è stata accusata dalle autorità cinesi di avere violato la legge «dando alla luce il terzo figlio». Per questo, le è stato intimato di sottoporsi all’operazione: «Mi è anche stato detto che dovevo essere grata al Partito, che mi offriva questo trattamento gratuitamente», sottolinea. Giunta al centro medico, la testimone racconta di averci trovato altre cinque donne uigure tra i venti e i trent’anni, tutte in attesa di subire l’operazione. «Mi sono svegliata dopo l’intervento in preda a un forte dolore. Intorno a me, sui lettini, c’erano le altre donne, tutte nella mia stessa condizione». Conclude Zumrat: «C’è ancora così tanto che non riesco a raccontare o ricordare con precisione. Quello che mi preme, però, è dare la mia testimonianza sulle pratiche disumane che avvengono nello Xinjiang. Quello che mi è accaduto non riguarda solo me, ma milioni di altre donne e uomini innocenti, che proprio in questo momento si trovano all’interno dei campi di concentramento in Cina. Il mio racconto non è che una goccia nel mare, che non esaurisce le ingiustizie che il mio popolo è costretto a subire».
Nessun contatto con la famiglia - Dopo Zumrat, a parlare è Ziba Murat, la cui madre, Gulahan Abbas, è stata deportata in un campo di concentramento nello Xinjiang nel 2018. Per tutto il tempo della sua testimonianza, Ziba non riesce a trattenere le lacrime. «Mia madre è stata portata via da casa il 10 settembre 2018 dalle autorità cinesi. Da quel giorno, nè io nè la mia famiglia abbiamo notizie su dove si trovi o come stia. Non conosciamo le ragioni per cui è stata arrestata, è un medico in pensione, non ha mai preso parte a nessuna attività politica e ha passato la sua vita a dedicarsi agli altri». Ziba ritiene che le autorità cinesi abbiano voluto ammonire lei e altri suoi familiari attivi politicamente portando via la madre. «Non posso sopportare l’idea che mia mamma si trovi in una cella, senza la possibilità di vedere la sua famiglia e di consultare un avvocato».
«Non starò in silenzio» - Rushan Abbas, fondatrice di Campaign for Uyghurs, l’organizzazione che ospita il panel, confida telefonicamente di essere la zia di Ziba Murat, nonché sorella di sua madre. «Penso che la deportazione di mia sorella sia legata alla mia attività di protesta contro il governo cinese», spiega. Nata e cresciuta a Urumqi, capoluogo dello Xinjiang, Rushan è infatti diventata un’attivista per i diritti degli uiguri ai tempi dell’Università. «Il 5 settembre 2018, sei giorni prima dell’arresto di mia sorella, ho tenuto una conferenza pubblica sui metodi orwelliani della dittatura cinese in un prestigioso think tank di Washington». Rushan è convinta che l’arresto di Gulshan Abbas sia legato al suo attivismo negli Stati Uniti. Alla stregua della nipote, Ziba Murat, Rushan è infaticabile nella ricerca di sua sorella, come dimostrano le sue pagine social, piene di foto che le ritraggono insieme e di appelli alla comunità internazionale. «Il governo cinese ha cercato di mettermi a tacere prendendo mia sorella, ma non funzionerà. In questi anni ho fatto sentire la mia voce ancora più forte, raccontando al mondo cosa è accaduto alla mia famiglia». Conclude Rushan Abbas: «Dopo la pubblicazione sul New York Times della documentazione cinese riguardante il trattamento degli uiguri nello Xinjiang e dopo l’uscita del video che mostra centinaia di persone bendate e rasate deportate nei campi, l’attenzione pubblica ha iniziato a destarsi. Ma le parole e l’indignazione non sono sufficienti. E’ necessario agire. Questa questione non riguarda solo un popolo, ma l’umanità intera».
Genocidio? - Una questione rilevante riguarda l’utilizzo del termine “genocidio” applicato alla persecuzione del popolo uiguro (ma anche kazako, altra minoranza di lingua turca e religione musulmana perseguitata nello Xinjiang) in Cina. Su questo punto, la comunità internazionale e le Nazioni Unite non si sono ancora espresse in maniera univoca. Per quanto infatti il muro di silenzio sia ormai stato infranto, si sa ancora troppo poco - e con troppa poca precisione - su quanto accade all’interno dei campi di detenzione in quella regione. Tuttavia, possiamo rifarci alla definizione data dalle stesse Nazioni Unite di “genocidio” nel 1948, che include una serie di atti perpetrati allo scopo di “distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso, come tale”. Questi atti, che possono essere considerati “principi di individuazione” del genocidio sono cinque:
Chiamare le cose col loro nome - Relativamente a questa definizione, è sufficiente che un solo principio di individuazione sia accertato, per stabilire l’esistenza del reato. Nella fattispecie uigura, secondo diverse fonti e stando alle testimonianze riportate qui, sarebbero applicati addirittura tutti i cinque principi di individuazione. All’interno dell’Unione Europea, diversi esperti hanno parlato di “genocidio demografico” o “genocidio culturale” per descrivere la politica repressiva messa in atto dalla Cina nei confronti dell’etnia uigura. Terminologia che però non soddisfa diversi attivisti, tra cui Rushan Abbas: «L’espressione ‘genocidio demografico e/o culturale’ non significa nulla - s’indigna l’attivista - Perché la situazione cambi bisogna iniziare a chiamare le cose con il loro nome. Quello attuato nei confronti degli uiguri nella regione dello Xinjiang è un genocidio tout court, reale e fisico».
#BoycottMulan - Recentemente, gli Stati Uniti hanno preso una posizione molto netta in favore del popolo uiguro, accusando direttamente la Cina di crimini contro l’umanità e violazione dei diritti umani fondamentali. L’amministrazione di Trump ha inoltre sanzionato alcune società cinesi accusate di essere coinvolte nella repressione degli uiguri. Tra le varie campagne per sensibilizzare l’opinione pubblica, #BoycottMulan ha avuto di recente una particolare eco. Attivisti uiguri da ogni parte del mondo si sono mobilitati per protestare contro la diffusione dell’adattamento cinematografico del cartone animato Mulan, distribuito dalla Disney e uscito negli Stati Uniti lo scorso 4 settembre. Tra i motivi delle proteste, vi è il fatto che la pellicola è stata girata nello Xinjiang, “un luogo dove si perpetrano impunemente gravissimi crimini contro l’umanità”. Inoltre, l’attrice protagonista Liu Yifei ha espresso in un post il suo sostegno alla polizia di Hong Kong contro i manifestanti.
Una semplice domanda - Dopo aver ascoltato le testimonianze e riportato alcune tra le inchieste più rilevanti sull’argomento, è difficile evitare di porsi l’unica domanda che sembra avere senso: perché? Perché accanirsi con tanta violenza e determinazione su un popolo che non arriva nemmeno a dieci milioni di membri, un numero esiguo se paragonato alle masse sterminate di cinesi che popolano l’estremo Oriente? L’argomento religioso non sembra realistico, e nemmeno quello del fondamentalismo islamico, che ha costituito un problema reale in passato, ma che non può giustificare il tentativo di radere al suolo un’intera etnia.
Posizione geografica - «La differenza religiosa ed il tema del terrorismo sono dei pretesti, che non esauriscono la questione della repressione di massa contro gli uiguri e le altre minoranze presenti nello Xinjiang» afferma Elise Anderson, ricercatrice presso lo Uyghur Human Rights Project. Secondo Anderson, le ragioni profonde della persecuzione sono da ricercarsi nella posizione geografica altamente strategica dell’ex Turkestan orientale e nel suo peso geopolitico. Oltre a trovarsi nel punto in cui la Via della Seta sfocia in Cina, lo Xinjiang è anche estremamente ricco di materie prime, gas, petrolio e risorse minerarie. «In un momento storico in cui la Cina ha espanso in modo esponenziale la sua influenza a livello globale, mettere in sicurezza aree strategiche su un piano economico diventa essenziale», continua la studiosa e attivista. Inoltre, anche dopo l’intensificarsi delle politiche repressive di Pechino, l’etnia uigura ha dato prova di una resistenza fuori dalla norma, rifiutando di assimilarsi alla maggioranza han. Molte donne non si sono prestate ai matrimoni misti e l’osservanza della religione islamica è ancora ampiamente praticata, malgrado le campagne dissuasive. Questa resistenza all’assimilazione può avere contribuito all’inasprirsi delle politiche repressive, all’ampliamento dei campi e alle pratiche di sterilizzazione forzata verso le donne.
Le autorità negano - La Repubblica Popolare Cinese continua a negare le accuse di genocidio e crimini contro l’umanità, usando l’argomento della messa in sicurezza della regione e del miglioramento delle condizioni di vita e lavorative. In un rapporto uscito a settembre 2020, il governo cinese smentisce quelle che definisce “accuse false e infondate” da parte di alcuni membri della comunità internazionale. Si legge nel rapporto: «Per anni alcune forze internazionali, responsabili di pregiudizio ideologico nei confronti della Cina, hanno applicato un doppio standard in Xinjiang, criticando "violazioni dei diritti umani" mentre ignoravano i grandi sforzi fatti per proteggere i diritti umani in quest’area». Conclude il rapporto: «Tali accuse infondate dovrebbero essere fortemente negate da chi ha a cuore giustizia e progresso». Eppure, secondo la documentazione fatta trapelare lo scorso anno, solamente nel 2019 150 uiguri avrebbero perso la vita all’interno dei campi di prigionia. Il numero complessivo di decessi, per il momento, è sconosciuto.