Gli sconvolgimenti climatici hanno ripercussioni sempre più frequenti sulla salute mentale delle persone
«La prima volta che mi è successo ero in Germania, ad Aquisgrana. Stavo seguendo una manifestazione ambientalista insieme ai miei compagni di Fridays for Future. Ci opponevamo ai lavori di una miniera molto inquinante. Nel corso della marcia a un certo punto è successo che io mi trovassi proprio al bordo della miniera, sul margine. Praticamente sul precipizio. Attorno c’era una vallata verde enorme, piena di natura e di vita. E lì a deturparla questa enorme miniera, tutta nera, con dei fumi densi e tossici che fuoriuscivano e una puzza tremenda di qualcosa di velenoso. Ti entrava dentro, ti si attaccava addosso e non andava mai via. Ecco, lì mi è successo la prima volta. Ed è stato tremendo».
Il racconto - A parlare è Vincenzo Mautone, uno studente napoletano di ventuno anni. Sta raccontando a Ticinonline/20 minuti della prima volta che ha avuto un attacco di eco-ansia, un particolare tipo di ansia derivante dalla paura per i cambiamenti climatici.
«Mi sono sentito mancare il respiro. Non sono riuscito a esprimere il senso di ansia che avevo addosso. Non sono riuscito neanche a parlare, sono rimasto attonito. Ero immobile, non riuscivo a muovermi. Lì con me c’era una mia amica. Ricordo che lei è scoppiata a piangere alla vista di quell’enorme sfregio alla natura. Era come una ferita mortale. Lei è stata molto male, per alcuni giorni si è ammutolita e ha smesso addirittura di mangiare».
Gli psicologi definiscono l’eco-ansia come il disturbo causato da una paura cronica e costante dei cambiamenti climatici e delle loro ripercussioni sul mondo e sugli esseri viventi. Secondo uno studio effettuato dalla Global Burden of Disease, dal 1990 a oggi la diffusione di questo disturbo è aumentata di circa il 50% su scala globale. Oggi almeno 284 milioni di persone nel mondo sarebbero affette da eco-ansia.
Nonostante ciò, una vera e propria definizione scientifica condivisa dagli psicologi di tutto il mondo ancora non esiste per questo fenomeno. In un’intervista ad Altreconomia, la psicologa sociale Christina Popescu ha spiegato che l’espressione eco-ansia è stata usata per la prima volta nel 2017, ma che ancora non sono stati stabiliti i criteri per identificare le persone che soffrono di questo disturbo.
La paura di ciò che verrà - L’impatto che i cambiamenti climatici stanno avendo sulla salute mentale è oggetto di attenzione degli esperti già da alcuni anni. Ad esempio, nel 2016 l’American Psychological Association ha pubblicato un articolo secondo cui «l’esposizione a disastri naturali causati dal meteo estremo o dal clima può avere conseguenze sulla salute mentale tra cui ansia, depressione e sindrome da stress post-traumatico».
Tecnicamente la paura e l’ansia che seguono un disastro naturale prendono il nome di solastalgia. Gli esperti parlano di solastalgia quando un vissuto personale porta l’individuo ad avere una percezione negativa del cambiamento climatico. Nonostante spesso si parli di solastalgia di pari passo con il concetto di eco-ansia, quest’ultima si differenzia perché è un’ansia derivante da un fenomeno che deve ancora avvenire. Un’ansia “anticipatoria”, come definita da Christina Popescu.
I giovani adulti i più colpiti - L’eco-ansia – e più in generale la sensibilità verso le questioni ambientali – sembrano essere un fattore anche generazionale. La stessa American Psychological Association, in un altro articolo pubblicato nel febbraio del 2020, ha affermato che le persone più esposte al problema dell’eco-ansia sono i giovani adulti, con un’età compresa tra i 18 e i 34 anni. Più della metà degli americani nella stessa fascia anagrafica credono che i cambiamenti climatici siano tra i principali fattori che influenzeranno la loro vita nel futuro prossimo.
Anche in Europa il tema è sensibile e riguarda molti milioni di giovani adulti, ma una risposta univoca al problema sembra mancare. Mentre la comunità scientifica non riesce a formulare una definizione univoca di eco-ansia, le istituzioni politiche faticano a trovare un approccio compatto e coerente per contrastare i cambiamenti climatici.
«Prima di Aquisgrana io non avevo mai provato ansia. Poi però quel giorno le cose sono cambiate, e sono entrato in una quotidianità di paura» racconta Vincenzo. «Non si tratta di una paura costante. È più una cosa che cambia forma, che si esprime di volta in volta con stati d’animo diversi, che ha degli alti e dei bassi, ma che sostanzialmente sta sempre lì e non se ne va mai» dice.
L’effetto domino devastante - Vincenzo spiega che ciò che gli causa ansia non è tanto il singolo episodio di Aquisgrana o altri episodi drammatici da un punto di vista ambientale, quanto la comprensione delle conseguenze di lungo termine che questi episodi possono avere. «Io credo che sia chiaro che danneggiare l’ambiente significa danneggiare molti aspetti della vita nostra e altrui. L’ambiente che ci circonda è l’elemento di coesione che lega le nostre vite e le nostre attività. Inquinare significa distruggere tutto questo, significa distruggere tutto. Significa innescare un effetto domino devastante per tutti noi».
Vincenzo studia storia e antropologia, ed è convinto che i suoi studi lo aiutino a capire le interconnessioni che esistono tra le varie attività umane e – più in generale – tra la vita dell’uomo e l’ambiente circostante. «Ciò di cui sono contento – aggiunge – è che sembra che sempre più persone siano ormai consapevoli di quanto sia importante impegnarsi sul fronte del rispetto dell’ambiente». Vincenzo non è di certo l’unico giovane a essere colpito da eco-ansia.
Schiacciata dall’impotenza - Martina Comparelli, studentessa ventisettenne milanese, ha raccontato a Tio che nel suo caso questo disturbo si traduce in un forte senso d'impotenza. «Io mi sento sola al mondo. Il punto è questo: io posso fare anche scelte individuali ambientaliste, ma se poi chi conta non fa niente per cambiare le cose tutto questo diventa quasi inutile. E quando mi accorgo che non c’è il giusto seguito mi agito, mi manca il respiro».
Alcuni studi hanno dimostrato che modificare abitudini personali di vita quotidiana può avere un impatto notevole, ma comunque non sufficiente per rimediare allo stato di salute del pianeta l’attuale condizione. Martina si impegna su base quotidiana per ridurre il proprio impatto ambientale, ma secondo lei quello che manca è una visione istituzionale e compatta che porti a cambiamenti drastici e sistemici nella quotidianità delle persone.
Gli attacchi frequenti - «Dobbiamo ripensare proprio le fondamenta della società, ma questo non sta avvenendo» dice. Questo le causa attacchi di ansia profondi, che le tolgono il respiro, la fanno sentire paralizzata, che non le consentono di alzarsi anche se lo vorrebbe. Gli attacchi sono frequenti, anche due volte a settimana.
«Ho imparato a fronteggiarli mettendomi del ghiaccio sul viso, aprendo le finestre quando riesco. A volte riesco a chiamare qualcuno di fidato e parlargliene. Ci si sfoga come si può, ma sono sempre soluzioni d’emergenza. Niente di sistematico» racconta Martina con una voce tremolante.
Alcuni esperti interpretano l’eco-ansia non come un disturbo, ma come un disagio potenzialmente positivo in quanto capace di generare un impegno da parte della persona in senso ambientalista. Secondo questa interpretazione, il disagio diventerebbe patologico nel momento in cui viene percepita l’ineluttabilità dei cambiamenti climatici e l’inevitabilità della distruzione del mondo per come lo conosciamo oggi.
Il movimento Fridays For Future - Seguendo questa interpretazione, l’attivismo ambientalista potrebbe essere una soluzione al problema dell’eco-ansia. «Sinceramente non ho mai capito se il mio attivismo è stata una causa o una soluzione ai miei problemi di ansia» dice Martina, anche lei parte del movimento Fridays For Future. «Il fatto di essere coinvolta in questi movimenti mi ha fatto capire quanto sia grave la situazione in cui ci troviamo. Ovviamente si entra a far parte di un movimento perché una certa consapevolezza di fondo c’è. Ma poi una volta che si diventa parte attiva si inizia a parlare, a conoscere, a studiare, a confrontarsi, e veramente si capisce che siamo messi addirittura peggio di come pensavamo. Questo genera ansia, panico, senso di frustrazione e fragilità».
Se da un lato l’attivismo ha portato Martina dentro a un gruppo di persone molto sensibili alle tematiche ambientali, dall’altra l’ha anche fatta sentire parte di un movimento che si impegna pubblicamente per ottenere risultati concreti. «Accanto a questa consapevolezza dello star peggio del previsto, però, l’attivismo mi ha aiutato molto a farmi sentire attiva, appunto. Tutti noi sappiamo di star facendo il massimo possibile per noi singoli individui, e di questo siamo molto fieri» racconta Martina. «E poi – conclude – l’attivismo ti consente di far rete. Questo aiuta moltissimo».
Una “terapia” di gruppo - Anche Vincenzo su questo è molto concorde. «Far parte di Fridays For Future mi ha fatto scoprire molte cose tecniche che non conoscevo. Ad esempio ho capito dinamiche biologiche di cui ero all’oscuro, e in generale mi sono reso conto che la situazione in cui ci troviamo è molto peggiore di quanto sia possibile immaginarsi. Però è vero pure che l’attivismo mi ha reso parte di un gruppo di persone meravigliose. Siamo tutti amici, tutti condividiamo le stesse preoccupazioni e siamo pronti a darci sostegno l’un con l’altra perché ci capiamo».
Vincenzo racconta di non aver mai intrapreso un percorso di terapia per far fronte ai problemi di eco-ansia, ma dice di aver trovato conforto nella rete umana degli attivisti di cui fa parte. «In generale so che posso sentirli in ogni momento. Sai, a volte basta anche un semplice “oggi come stai?” per farti capire che non sei solo».
Le persone che soffrono in modo patologico di eco-ansia spesso spiegano che all’origine del proprio malessere c’è la percezione del fatto che l’umanità abbia perso in qualche modo la consapevolezza del rapporto d'interdipendenza con la natura. Proprio per questo motivo uno degli approcci psicologici più di successo nel curare questo disturbo è quello dell’ecopsicologia.
Una disciplina recente - L’ecopsicologia è una nuova disciplina nell’ambito della psicologia nata in California tra la fine degli Anni Ottanta e l’inizio degli Anni Novanta. Robert Greenway e Theodore Roszak– veri “padri fondatori” del movimento – unirono alcune correnti di pensiero già esistenti con riflessioni sulle nuove problematiche psicologiche emergenti per dare vita a una psicologia capace di sanare la frattura derivante dal rapporto tranciato tra umanità e natura. In particolare si voleva restituire centralità alla relazione ancestrale tra individuo e ambiente con l’obiettivo di rimediare al disagio esistenziale e ai disturbi psicologi tipici di chi vive distaccato dall’ambiente naturale circostante.
Il movimento ha conosciuto un ampio successo internazionale, raggiungendo ben presto le coste europee. È presente nel Regno Unito, in Italia, Grecia, Spagna, Belgio, Ungheria e in Svizzera. Per molti anni la IES, International Ecopsychology Society, ha avuto sede a Neuchâtel, mentre oggi è a Chiasso.
La condivisione genetica - Marcella Danon, ecopsicologa italiana cofondatrice della IES, spiega a Ticinonline come, per capire quanto sia fondamentale il rapporto tra uomo e natura, basta sapere che gli esseri umani condividono più del 98% del proprio DNA con i primati e percentuali molto significative con altri animali e piante, e persino con batteri e virus.
«Il sistema economico e produttivo in cui viviamo ha modificato il nostro modo di sentirci nei confronti della natura. Nell'attuale visione antropocentrica – in cui l’essere umano è considerato al centro – l’ambiente circostante va piegato ai nostri bisogni» racconta Danon. «Questa visione utilitarista ci ha portati a seguire stili di vita poco compatibili con la nostra vera natura, e finisce col generare in noi disagi, ansie e paure».
Come riallacciare il rapporto - Partendo da questo retroterra teorico e avvalendosi di un nutrito studio filosofico, l’ecopsicologia – spiega Danon – trova una applicazione peculiare su tre livelli. «Anzitutto si lavora sulla crescita personale, stimolando il senso individuale di potere personale, il senso di efficacia e l'impegno attivo per cambiare le cose. Poi un ruolo fondamentale è giocato dal setting, ossia dal luogo in cui avvengono le sedute o le attività di gruppo. Ad esempio un ecopsicologo preferirà lavorare e conversare passeggiando in un parco cittadino piuttosto che farlo in una stanza. L’idea di base è che riallacciare il rapporto con la natura aiuta le persone ad aprirsi più facilmente e a ritrovare il dialogo con la loro stessa natura interiore. E poi – conclude Danon – l’ecopsicologia utilizza molto spesso la natura o fenomeni naturali come metafora per facilitare la comprensione e l’espressione di sé».
Il bisogno di ritmi naturali - Uno degli esempi citati dall’ecopsicologa è quello delle stagioni. «Spesso mi trovo davanti a pazienti o partecipanti ai gruppi di ecopsicologia, che sono fortemente stressati dai ritmi sociali e lavorativi a cui sono sottoposti. E qui occorre sempre ricordare che il nostro organismo – in quanto legato a doppio filo con la natura – ha bisogno di ciclicità. Ha bisogno di una primavera in cui fiorire e di un’estate in cui esplodere di vita, ma anche di un autunno di riflessione e di un inverno di riposo. Il sistema ci vorrebbe sempre produttivi e sempre efficienti e performanti. Ma noi, per stare bene, abbiamo bisogno di ritmi organici, non meccanici».
Seguendo un approccio ecopsicologico si arriva a sostenere che una soluzione all’eco-ansia sia proprio quella di recuperare il rapporto ancestrale tra l’essere umano e la natura andato perduto a causa del sistema produttivo nel quale siamo immersi.
Impegno per il mondo e per sé - Marcella Danon spiega infatti che l’eco-ansia deriva da una preoccupazione motivata e fondata su dati reali che si somma a tematiche personali dell’individuo. Se non viene espressa, condivisa e tradotta in azione propositiva, può trasformarsi in grande sofferenza. Entrare all’interno di gruppi di persone che si attivano su iniziative concrete e che sono pronte a fare rete e aiutarsi l’uno con l’altro può essere di grande aiuto per chi ne soffre.
«L’approccio ecopsicologico accompagna gli individui a rafforzare il senso di autoefficacia e di consapevolezza personale. Avviene una assunzione di responsabilità nei confronti della propria esistenza personale che si traduce spontaneamente in impegno nei confronti dell’ambiente e del mondo, riconosciuto come parte integrante di sé e non più come qualcosa di estraneo».
L’ecopsicologia si è affermata nelle università di vari paesi del mondo. Ad esempio l'Università della Valle d'Aosta offre un corso opzionale di Ecopsicologia all’interno del percorso di laurea in Scienze e Tecniche Psicologiche. Sempre in Italia esiste una delle principali scuole di ecopsicologia. In Svizzera non esistono ancora scuole vere e proprie, né corsi universitari dedicati. Però alcune organizzazioni no profit organizzano piccoli workshop di ecopsicologia o comunque di avvicinamento e sensibilizzazione della popolazione verso tematiche ambientali. Ad esempio, l’associazione J'aime ma Planète ha lanciato le eco-schools dedicate ai più piccoli, mentre negli ultimi anni il Politecnico di Losanna ha organizzato alcune conferenze tenute dall’esperto di ecopsicologia Michel Maxime Egger.
Favoriti dalla natura ma… - Valentina Piccarreta è una ecopsicologa comasca attiva da più di dieci anni a Ginevra. Spiega che «in Svizzera è sempre esistita una cultura ambientalista piuttosto radicata. Forse anche per merito della natura selvaggia del suo territorio, le persone sanno ad esempio che è importante ridurre l’uso dell’automobile e differenziare i rifiuti. In generale – spiega – c’è una diffusa cultura dell’ambiente e di un sano rapporto tra uomo e natura».
Tuttavia anche in Svizzera l’approccio rimane molto di nicchia. «Spesso – racconta Piccarreta – parlo di ecopsicologia a persone che non ne hanno mai sentito parlare. E per certi versi è un peccato, perché la Svizzera è un importantissimo polo istituzionale per tutto il mondo, e quindi potrebbe giocare un ruolo di guida a livello europeo e aprire una strada concreta verso il recupero di un rapporto più sano tra l’umanità e l’ambiente circostante».