Tra i migranti in viaggio ci sono famiglie, bambini molto piccoli e donne incinte. Ecco le loro storie e i loro volti
«Non era ancora l’alba quando i talebani hanno sfondato la porta di casa portando via mio fratello, mio zio e mio padre. Sono trascorsi ormai due anni da quella terribile giornata. Dopo la sparizione dei miei familiari mi sono fermata qualche altro mese nella mia città, Kabul. Ancora oggi spero di ricevere un messaggio dai miei parenti. Eppure una notizia, da loro, non arriva mai».
Maryam che sogna le montagne - Maryam ha 25 anni e ha lasciato l’Afghanistan in un giorno di primavera. «Alla fine ho deciso di abbandonare gli studi in storia dell’arte. In quel periodo l’università è stata colpita da vari attentanti e io ho capito che neppure in un’aula, fra i libri, si poteva restare al sicuro». La ragazza respira profondamente prima di riprendere a parlare. «Per noi donne afgane i problemi non sono iniziati con il ritorno dei talebani al governo: ci sono sempre stati». Maryam prende la mano della donna che le siede affianco. «Lei è Nadia, mia sorella. È voluta fuggire in Europa con me e le sue due bambine. Abbiamo camminato tanto tra Iran, Turchia, Grecia, fino a che il nostro viaggio si è fermato per qualche mese tra Bosnia e Croazia». Maryam socchiude gli occhi. Per un attimo, il suo racconto si interrompe fra le lacrime che non riesce a trattenere e le rigano il viso. «La polizia croata è stata violenta. Ci ha derubate. Non ha avuto rispetto per nessuno. Neanche per i bambini». Accovacciata su un muretto poco distante dall’entrata del rifugio Fraternità Massi di Oulx, piccolo comune in provincia di Torino, Maryam guarda verso le altissime cime delle Alpi Cozie che circondano questo paesino poco distante dal confine franco- italiano. Oltre quelle vette c’è la Francia. C’è l’Europa. «Vedi? Io ritrovo la pace solo guardando alla bellezza della natura. Ora andremo in Svezia. Lì abita mia cugina. Chissà, magari potrò riprendere a studiare e poi troverò lavoro in un museo».
Omar col mito di Londra - È un pomeriggio di settembre e davanti ai cancelli del rifugio, che tra poco si spalancheranno, si gremiscono sempre più persone. «Ho vent’anni e ho abbandonato l’Afghanistan quattro anni fa. Non ero più sereno nei luoghi in cui sono cresciuto, dove sono rimasto ferito durante un attentato» ricorda Hassan, 21 anni. «Mi auguro di arrivare presto a Londra dalla mia famiglia. In Bosnia e in Croazia ho visto di tutto. Non ho più paura di nulla». Un gruppo di ragazzi guarda un video riprodotto dal cellulare di un loro amico, Omar. «Ho 23 anni e non volevo più vivere a Kabul. Sono partito due anni fa e a marzo del 2020 sono rimasto bloccato in questo campo», spiega mostrando le immagini di una tendopoli sullo schermo del proprio telefono. «È l’isola di Lesbo. Ci sono rimasto sette mesi in quell’inferno», continua Omar. «Mio padre è in Afghanistan e mi auguro possa presto raggiungere me e mia sorella, che intanto vive già a Londra». Omar mette il telefono in tasca e resta in silenzio per un attimo. «In Serbia e in Croazia ho visto di tutto. Di cosa dovrei avere paura, ormai?».
Dei bambini rincorrono un pallone fino a un momento prima rimasto nascosto tra i container destinati alle famiglie, mentre una giovane coppia posa a terra un pesante borsone. «Ogni sera passano di qui trenta, cinquanta persone. In moltissimi casi si tratta di nuclei famigliari» dichiara Silvia Massaro, volontaria al Fraternità Massi. «Il rifugio vuole essere una tappa in grado di regalare ai migranti un po’ di conforto, qualche ora di riposo. Semplici azioni come lavarsi, parlare, fanno parte di qualcosa che va oltre il supporto fisico e restituiscono dignità all’essere umano», continua Massaro. Il rifugio Fraternità Massi spalanca le porte ai migranti nell’estate del 2018, quando a Oulx iniziano a giungere sempre più persone. Dopo la sospensione dei trattati di Schengen del 2015, avvenuta su iniziativa francese, e con le norme antiterrorismo del 2017 volute dal presidente Macron all’indomani degli attentati al Bataclan e degli altri attacchi terroristici che prendono di mira la Francia, superare la frontiera italo- francese diventa sempre più complicato. A seguito di queste strette la via di Ventimiglia- porta occidentale d’Europa- che dalle Alpi marittime della Liguria conduce fino a Menton, primo paese d’oltralpe, comincia ad essere presidiata in maniera massiccia dalla polizia di frontiera.
Alla ricerca del sentiero giusto - Nel tentativo di scansare i serrati controlli della gendarmerie, dal 2017 i migranti provano ad entrare in Francia seguendo percorsi alternativi. Uno di questi sentieri attraversa il valico alpino Colle della Scala, in Alta Val di Susa, a Bardonecchia. Quell’inverno di quattro anni fa però, sulle Alpi cadono fino a due metri di neve e le condizioni metereologiche rendono rischioso l’attraversamento di quel sentiero. Alcuni migranti, non conoscendo i rischi della montagna che in inverno è soggetta a ghiaccio e slavine, provano ugualmente ad attraversare il confine. Alcuni transitanti restano bloccati ad alta quota e vengono portati in salvo dal soccorso alpino della Croce Rossa Italiana. Altri, invece, perdono la vita nella ricerca di un futuro migliore e i loro corpi saranno ritrovati solo in primavera. Nel frattempo alcuni abitanti della Valle non restano indifferenti alle difficoltà incontrate da quelle persone che camminando cercano la propria fortuna lontani dai loro Paesi, e gettano il seme che farà germogliare quella rete di accoglienza oggi è attiva tra Oulx, Bussoleno, Susa e Claviere. «Per evitare che i migranti ci lasciassero le penne, dai ristretti spazi della sala d’attesa della stazione di Bardonecchia abbiamo ricavato un ricovero. Poi piano piano le persone hanno trovato altre strade e pure noi ci siamo spostati su Oulx». Dal 2018 infatti, le rotte migratorie cambiano ancora. Nonostante la via di Ventimiglia continui a essere un punto di passaggio (ad oggi utilizzato soprattutto da chi arriva dalla rotta del Mediterraneo), i migranti cominciano a camminare lungo i sentieri che partono da Claviere, famoso centro sciistico stretto tra i monti francesi. «In questa epoca storica sappiamo che il flusso migratorio è inarrestabile» - prosegue la volontaria - «e noi proviamo ad essere un punto importante sul loro cammino. Anche avendo la sensazione di essere una goccia nel mare, noi cerchiamo di rendere più umano questo loro camminare: ammesso che si possa, perché questo pellegrinare è davvero disumano», conclude Silvia Massaro.
Volontari fino a notte fonda - Intanto il cielo su Oulx comincia a tingersi dei colori del tramonto e sul rifugio scendono lentamente le prime ombre della sera. Nel cortile un’infermiera prende un saturimetro e controlla i livelli di ossigeno a due donne. «Ci occupiamo principalmente della prevenzione contro il Coronavirus. Misuriamo la febbre, facciamo i tamponi. Se qualcuno dei transitanti è positivo, allora lo isoliamo e chiediamo aiuto al 118 o alla guardia medica», illustra Antonella dell’ong medico- sanitaria Rainbow4Africa. «Con la nostra organizzazione siamo intervenuti in Val di Susa già nel 2017 a Bardonecchia. Poi la pandemia in corso, a febbraio di quest’anno ci ha portati al rifugio». In uno stanzino trasformato in ambulatorio, tra farmaci da banco e qualche garza, Antonella sanifica un lettino. «Arriviamo qua in prima serata e ci fermiamo fino all’una e trenta di notte. Se ci sono i respinti al confine che necessitano di visite, o qualcuno sta male, allora ci fermiamo tutto il tempo necessario. Ma anche se non restiamo in questa stanza, noi restiamo comunque reperibili per tutta la nottata», sottolinea l’infermiera. Qualcuno bussa alla porta. «Dobbiamo interrompere questa chiacchierata. Mi sa che c’è bisogno del nostro intervento», commenta Antonella. Una donna afgana, incinta di quattro mesi, lamenta un forte dolore alla gamba e chiede di essere visitata.
In fuga per tre anni sulle spalle del padre - «Quella donna dovrà riposare. Come tutte le persone che giungono ad Oulx, anche lei ha camminato chilometri e chilometri», evidenzia l’infermiera. «Molte volte i migranti riportano ferite ai piedi dovute a questo lungo pellegrinaggio. Per non parlare poi di quelle psicologiche. C’è chi racconta gli abusi subiti specialmente in Croazia, o chi ha perso i contatti con la propria famiglia che magari è riuscita ad oltrepassare il confine. Perché questa rotta è particolarmente attraversata dalle famiglie provenienti dalla rotta balcanica, che necessitano di un periodo di riposo. Ad esempio, qualche mese fa è giunta una famiglia iraniana in cammino da tre anni ed erano stati respinti in Francia. Uno dei tre figli della coppia soffriva di ipertensione polmonare e aveva la colonna vertebrale bifida. Il padre lo portava da tre anni sulle spalle. Abbiamo dato loro varie indicazioni per cercare delle cure a questo ragazzino. Ora sappiamo che si trovano in Nord Europa e stanno bene», commenta commossa Antonella. «Altre volte, però, chi sta male magari passa ma gli altri familiari rimangono dall’altra parte. Non va affatto bene che le persone vengano lasciate indietro». Su Oulx è scesa la notte e qualcuno, nella cucina del rifugio, prima di partire verso Claviere, sta per cenare. Un giovane uomo invece, porta in braccia un bimbo di un anno e sulle spalle ha già indossato lo zaino. «Stanotte proveremo a passare la frontiera». Rashid, ha 29 anni ed anche lui è afgano. «Sono scappato da Kabul insieme alla mia famiglia cinque anni fa», racconta il ragazzo. «Loro sono i miei figli più grandi», dice facendo cenno ai due bambini, un maschio e una femmina, che lo abbracciano. «In Bosnia siamo stati respinti venti volte. Siamo davvero stanchi e abbiamo bisogno di riposare. I miei genitori sono anziani e mia moglie è incinta», afferma Rashid indicando una coppia sui sessant’anni e una giovane donna. «Spero di arrivare presto in Svezia da mia sorella. Vorrei che il nostro quarto bambino nascesse lì», sussurra sorridente. «Al rifugio ci occupiamo della parte umanitaria ed emergenziale di chi passa il confine» spiega don Chiampo, parroco di Bussoleno e presidente di Talità Kum, la fondazione che gestisce il rifugio. Rispetto al 2018, quando le persone presenti nello spazio provenivano dalla rotta mediterranea o erano presenti in Italia da anni, dalla primavera del 2020 passa da qui soprattutto chi arriva dalla rotta balcanica.
Aperti 24 ore su 24 - «Con il sopraggiungere dell’inverno ci aspettiamo dei flussi maggiori, e da ottobre resteremo aperti 24 ore su 24. Certo, se non ci fossero i nostri operatori e i volontari questo luogo non potrebbe esistere», dichiara don Chiampo. «Ci sono stati dei giorni in cui ad Oulx non c’era più posto e abbiamo dovuto chiedere aiuto al polo della Croce Rossa di Bussoleno e alle suore francescane di Susa per offrire ospitalità ai viandanti. Tra qualche mese invece, finalmente avremo uno spazio più grande», conclude don Chiampo. «La nostra esperienza è cominciata a giugno del 2017, quando una famiglia sbarcata ad Augusta con una neonata di 12 giorni cercava un alloggio», racconta al telefono suor Annamaria dell’ordine missionario delle francescane di Susa. «Noi ospitiamo famiglie e persone in convalescenza. In convento trovano quella serenità di cui avvertono necessità. Ne abbiamo accolte tantissime e nell’ultimo anno abbiamo visto diversi arrivi da Kurdistan, Iran, Afghanistan, Pakistan, Armenia, Siria», ricorda la suora. A Susa, cittadina poco distante da Oulx, il convento delle suore francescane è diventato un altro importante punto della rete di accoglienza della valle. Quattro stanze per accogliere i migranti in difficoltà in uno spazio chiamato “Foyer Shalom” - rifugio di pace - sostenuto dall’omonima associazione con sede in Svizzera e formata da emigrati italiani che non hanno dimenticato le difficoltà incontrate in un Paese straniero.
«Cinque mesi fa siamo partiti dal Kurdistan Iracheno e siamo arrivati in Turchia. Da lì, poi, abbiamo pagato 12'500 dollari per un’imbarcazione che ci portasse fino in Italia» racconta Sherwan, 30 anni. «In Kurdistan mi sono laureato in informatica. Ora spero di poter trovare lavoro in Europa. Qua si respira quella libertà che al mio Paese non ho mai avuto». È ormai notte su Oulx e il ragazzo, insieme alla sorella e ad altri amici, cammina velocemente verso il terminal bus da cui è in partenza l’ultimo pullman per Claviere.
«Guardiamo all'Europa, perché siete liberi» - «Ho lasciato l’Iran insieme a mio padre sei anni fa. Siamo stati perseguitati per il nostro credo, perché noi siamo cristiani». Feroz ha 22 anni e appoggiato a una pensilina fuma una sigaretta. «Quello laggiù è il mio papà», afferma indicando un uomo con le gambe fasciate e accovacciato su un borsone. «Lui è anziano e ieri notte ha dovuto riposare. Stanotte riproviamo ad entrare in Francia», dice spegnendo la sigaretta. «In Iran puoi essere frustrato, impiccato, ucciso per motivi di culto, di genere, di pensiero politico. Non voglio vivere in quel modo. Io e i miei coetanei guardiamo all’Europa perché qua siete liberi. Se bevi un drink, ad esempio, nessuno ti può punire». Feroz si zittisce un attimo e volge lo sguardo verso la luna. «Superare i Balcani è stato molto difficile. In Croazia un poliziotto ha rotto il setto nasale a un mio amico. In Serbia abbiamo provato il “game” un sacco di volte. Nel campo a Bihac, però, ho conosciuto Said e suo padre. Oggi sono la mia seconda famiglia e lui, che ha solo 16 anni, è il mio fratellino. Non lo abbandonerò mai». Said e Melchior sono padre e figlio, anche loro in fuga da un Iran che non riconoscono come posto sicuro. «Mia madre è rimasta in Iran con mia sorella e mio fratello più grandi. Noi siamo dovuti fuggire per questioni politiche. Adesso andremo in Norvegia, e poi cercheremo di portare il resto della nostra famiglia in Europa», dichiara Said. Un altro ragazzo, Jacob, 20 anni, racconta delle violenze subite dal padre che non accettava la sua mancanza di fede. «Sono ateo» - racconta Jacob- «e a casa mia questo non era affatto tollerato. Ho pagato quasi ventimila dollari per un viaggio dalla Turchia all’Italia. Parigi e il conservatorio mio aspettano».
I ragazzi riprendono i propri borsoni e salgono sull’autobus diretto alla frontiera. Forse sul tardi pioverà, ma ora il cielo è stellato. Con la luce buona delle stelle, imboccando uno dei sentieri che conducono in Francia, nascondendosi dalla polizia, dopo dodici ore di cammino si potrà arrivare a Briancon.
L’ong Rainbow4Africa stima che nel periodo compreso tra marzo e luglio di quest’anno, sul confine italo- francese, dalla rotta balcanica siano arrivate decine di persone (715 dall’Iran, 93 dall’Iraq). Dati che fanno riflettere sull’instabilità del Medio Oriente, se pensiamo come nel periodo indicato gli Afgani giunti in Val Susa siano stati ben 1547. Un equilibrio precario basato su gravi violazioni dei diritti umani, repressione delle libertà e governi affatto democratici che hanno spinto migliaia di persone ad incamminarsi verso l’Eldorado europeo ben prima che i Talebani tornassero alla ribalta e si riaccendessero i riflettori sui Paesi del Medio-Oriente.
Abusi e soprusi che si intrecciano con le violenze subite lungo questo infinito peregrinare e riaffiorano nei racconti di chi fugge da Iraq, Iran, Afghanistan, Siria, Pakistan. Dallo scorso anno l’Italia, quale Paese di transito, è diventato per i migranti una delle tappe del “the game”. Il gioco. Così i transitanti - che arrivano soprattutto dal Medio Oriente - chiamano questo percorso ad ostacoli che ha inizio nei Balcani. Oltrepassato il confine croato, le persone si ritrovano a Trieste: da lì nel giro di un giorno si arriva a Milano, e poi ad Oulx. Insieme al rifugio Fraternità Massi, in Alta Val di Susa i migranti trovano anche uno sportello legale voluto da Drc Italia (Danish Refugee Council) e la Diaconia Valdese. L’info point offre un supporto socio- giuridico ed è stato fondamentale per raccogliere le testimonianze di chi attraversa la frontiera, così da avere un quadro completo di ciò che accade sulla line di confine. Il rapporto “A porte chiuse” redatto dal Danish Refugees Council (DRC) in collaborazione con Caritas Italiana, Asgi (Associazione per gli studi giuridici), Diaconia Valdese, Drc Italia e le altre sedi di Drc presenti nei Paesi di frontiera ha raccolto diverse testimonianze provenienti dai confini europee, che raccontano violenze e soprusi con effetti molto gravi su donne, minori e soggetti vulnerabili. «Nel caso dei minori non accompagnati» - si legge nel report - «le riammissioni informali in Italia assenza di un refus d’entrée rendono impossibile un ricorso, in quanto è necessaria una prova scritta del respingimento illegale per poter ottenere la riammissione». A questa pratica si aggiunge anche l’identificazione da parte delle autorità di frontiera dei minori non accompagnati come adulti; cosi che questi possano essere trattenuti e respinti. «Donne e minori non accompagnati raccontano di aver visto negato il loro diritto a un luogo sicuro, in quanto, nell’attesa di essere riammessi in Italia, condividevano un’unica stanza con uomini adulti. Spesso tali stanze sono piccole e non arieggiate ed espongono le persone al rischio di contrarre il Covid-19» riporta ancora la relazione; in cui sono descritti respingimenti dai toni e dalle modalità molte volte violenti.
Soccorsi a 2000 metri - «Questo sistema è una follia. Non avere un passaporto equivale a restare bloccati» afferma Davide Rostan, ex pastore valdese di Susa. «I respingimenti provocano paura nelle persone che invece avrebbero bisogno di andare in luoghi sicuri». Nelle ultime settimane poi, la situazione è ulteriormente precipitata. «Abbiamo osservato un aumento radicale dei respingimenti della Gendarmerie, forse dovuto alla soppressione delle corse serali Oulx - Claviere fino a dicembre. Le famiglie non attendono più la notte per entrare in Francia, e ipotizziamo che le persone soccorse un paio di giorni fa a 2000 metri di quota stessero tentando una rotta meno controllata» spiega M., volontaria al rifugio. «Specie i giovani uomini provano a raggiungere la frontiera di sera aggiungendo venti chilometri ai 14 che separano Claviere da Briancon; primo luogo di supporto alle persone in transito in terra francese».
L'inverno preoccupa - A rendere ancor più allarmante la situazione, c’è l’arrivo della stagione invernale. «Se lo stato italiano da una parte contribuisce al finanziamento del Fraternità Massi (a cui sono stati destinati nuovi spazi), dall’altro sgombera la casa cantoniera di Claviere a quattro giorni dalla sua occupazione. In questo modo si nega supporto ai transitanti. Insieme all’inverno tornano neve e temperature rigide» - continua M.- «Le nostre uniche soluzioni, come volontari, è offrire informazioni e sostegno ai migranti in transito, sebbene si prospettino situazioni di sovraffollamento del rifugio e gravi difficoltà di intervento».
Lungo i viottoli che si perdono tra i boschi immersi nel paesaggio alpino, a distanza di quasi un secolo la storia si ripete. Da decenni infatti, la frontiera italo-francese rappresenta il simbolo della lotta per la libertà e della speranza in un futuro migliore. È stato così per i partigiani che durante la seconda guerra mondiale organizzavano la controffensiva antifascista dalla Francia. È stato così fin dagli anni ’50, quando dal sud Italia le persone cercavano di superare il confine italiano per lasciarsi alle spalle fame e miseria. E anche all’epoca, su quel lembo di terra che divide due Paesi è stato tracciato un “noi e loro”: chi può restare e chi, invece, etichettato come “illegale” non può cercare condizioni di vita migliori lontano dalla propria casa. Eppure nessun essere umano è illegale. Nel libro “La Frontiera” Alessandro Leogrande, scrittore e giornalista scomparso prematuramente, parlando dei confini scriveva: «È la frontiera. Per molti è sinonimo di impazienza, per altri di terrore. Per altri ancora coincide con gli argini di un fortino che si vuole difendere. Tutti la mettono in cima alle altre parole, come se queste esistessero unicamente per sorreggere le frasi che delineano le sue fattezze. La frontiera corre sempre nel mezzo. Di qua c’è il mondo di prima. Di là c’è quello che deve ancora venire, e che forse non arriverà mai». Perché la frontiera è anche questo: un imbuto. Un limbo in cui le vite di chi viaggia con il suo bagaglio di dolori e speranze può essere fermato dalla lenta burocrazia che attanaglia le richieste di un documento. Oppure da leggi che vogliono difendere un territorio, come se la terra fosse un bene di proprietà. O semplicemente, dalla frontiera si può andare oltre abbandonando il passato e correndo verso il domani.
*Nomi di fantasia e dettagli sui protagonisti delle storie modificati a tutela delle persone intervistate.