Una tragedia del mare frutto, forse, di un rimpallo di responsabilità tra autorità francesi e britanniche.
Secondo i dati elaborati dall’agenzia di stampa Press Association, lo scorso anno circa 28.300 persone hanno provato ad attraversare la Manica, a fronte degli 8.300 migranti che invece nel 2020 avevano tentato di raggiungere le coste del Kent. A ogni numero, per ogni statistica, c’è la storia di chi ha sfidato le correnti del mare e il pericolo di morire per trovare un futuro migliore.
In fuga dal Kurdistan - E fra queste storie ci sono anche i volti delle 27 persone annegate il 24 novembre 2021 nelle gelide acque del Canale della Manica senza ricevere alcun soccorso. Fra loro c’erano una donna incinta, una madre coi suoi tre figli, giovani e meno giovani provenienti dall’Afghanistan e principalmente dal Kurdistan Iracheno. La pandemia da coronavirus ha creato una forte crisi economica e sociale che nella regione autonoma del Kurdistan ha portato a un rialzo del tasso di disoccupazione. L’Isis, sebbene sia stato cacciato dall’area dalle forze curde del KRG e da miliziani legati alle organizzazioni ideologicamente vicine al PKK, commette ancora attentati flash e rapimenti in quel territorio.
La storia di Twana - «Mio fratello aveva 18 anni ed era un giovane ambizioso. Qui non riusciva a trovare lavoro. Era il secondo più giovane di sette figli. Sentiva di non avere altra scelta, se non quella di lasciare Hijawa, la sua città». Zana Mamand, uno dei fratelli maggiori di Twana, dal Kurdistan Iracheno racconta gli ultimi mesi di vita del fratello annegato tra la Francia e l’Inghilterra. «Era il 10 agosto quando Twana è partito insieme ad altri due amici alla volta di Istanbul. Una volta atterrati in Turchia, i tre ragazzi hanno tentato di oltrepassare il confine con la Bulgaria ma sono stati catturati alla frontiera e riportati in territorio turco privi di ogni cosa. Le autorità hanno sequestrato loro beni di valore, soldi, abiti». Twana abbandona l’idea di percorrere la rotta balcanica, ma non si arrende. In Turchia conosce altri curdi e con loro decide di tentare un’altra rotta: quella del mare che da Izmir, Turchia, conduce fino alle coste del Sud Italia. Da lì, dopo dieci giorni, il gruppo riprende il proprio cammino e a ottobre, superato il confine franco-italiano, è a Parigi. «Mi ha mandato una foto davanti alla Torre Eiffel», continua Zana. «Poi il suo viaggio è proseguito finché ha raggiunto gli slums tra Calais e Dunkerque», dice il fratello. «Era impaziente. Viaggiava da mesi e lì, fra sgomberi e violenze, non riusciva proprio più a restare. Mi raccontava che nelle giornate limpide poteva vedere le bianche scogliere di Dover».
La tragedia - Ma quelle scogliere Twana e i suoi amici non le raggiungeranno mai. «In un messaggio mi aveva detto che sarebbe stato portato nel Regno Unito da un marinaio esperto in possesso di una barca in buone condizioni». Quella notte del 24 novembre, qualcosa non va. Durante la traversata il motore del natante si rompe e i migranti iniziano a imbarcare acqua a bordo. «Stavano affondando, e così hanno telefonato alla guardia costiera britannica», prosegue Zana. «Accendete le luci dei vostri cellulari, così possiamo vedere la vostra barca», rispondono dall’Inghilterra. Con la voce piena di rabbia Zana racconta che Twana ha scritto anche alla sorella che risiede nello Yorkshire, a Sheffield. «Era sereno. Tutti avevano le luci accese dei propri telefoni, e speravano di essere salvati. Hanno telefonato anche alle autorità francesi». Nonostante intorno alle 3 del mattino (dati ufficiali di monitoraggio marittimo dei due Paesi) fossero presenti alcune barche fra Calais e Dover, nessuno ha mai salvato i migranti in difficoltà. In trenta minuti l'imbarcazione va a fondo. Per un caso fortuito si salvano solo due ragazzi somali.
Sete di giustizia - I sopravvissuti hanno raccontato di aver indicato la propria posizione anche ai francesi, che li invitavano a contattare i britannici perché le operazioni di salvataggio spettavano a loro. «Perché nessuno ha soccorso quella barca in difficoltà?», si chiede Zana. Poi continua: «Assurdo che Francia e Regno Unito continuino a rimbalzarsi la responsabilità della vicenda rispetto alla posizione dei migranti nelle acque territoriali e su quale nazione dovesse prestare per prima soccorso». A quasi tre mesi dalla tragedia, il corpo di Twana e di altri due ragazzi risulta essere ancora disperso. «Mia madre sta impazzendo dal dolore. Mio padre perde le proprie forze giorno dopo giorno» confessa Zana, che ritiene l’incapacità di recuperare un corpo come il risultato finale della scarsa collaborazione delle autorità francesi e inglesi. «Come può mai essere possibile che in una distanza così breve, dopo mesi, non sia ancora stato trovato il corpo di mio fratello?» si chiede Zana, che da quel giorno ha trasformato la sua rabbia in una lotta affinché le vittime del naufragio abbiano giustizia. «È necessario fare luce su questa tragedia» evidenzia Zana «e bisogna parlare dei dispersi. Con i familiari delle vittime e di chi ancora non è stato trovato, ci siamo uniti per chiedere la verità. Non ci interessa un risarcimento. Vogliamo solo sapere perché, quella notte, i nostri parenti non sono stati soccorsi. Cos’è successo davvero?».
Azione legale - La tragica notte del 24 novembre 2021 non è caduta nel vuoto. L’associazione umanitaria Utopia56 - nata in Bretagna per garantire i diritti fondamentali dei rifugiati - ha lanciato una causa contro la guardia costiera francese e la prefettura del mare (rappresentanza statale a livello locale). In Inghilterra invece ha supportato l’azione legale di alcuni familiari delle vittime, mediante un’avvocata, contro le autorità marittime. «Abbiamo denunciato per omicidio colposo e omissione di soccorso» chiarisce Charlotte, attivista di Utopia56. «Siamo stati in grado di raccogliere le testimonianze dei due superstiti, che quella notte hanno chiamato più volte i numeri di emergenza francese e inglese. Non è intervenuto nessuno, perché ciascuno rispondeva che i migranti si trovavano nelle acque territoriali dell’altro Paese», prosegue Charlotte. Poi continua: «Un nostro volontario, il 20 novembre, ha chiamato la guardia costiera francese per chiedere un loro intervento. Le persone in difficoltà ci hanno telefonato perché i servizi di emergenza francesi e britannici, non volevano intervenire per le stesse motivazioni per cui sono rimasti fermi durante il naufragio qualche notte dopo. Crediamo che questi siano elementi sufficienti per avere dubbi sulle responsabilità dei due Paesi coinvolti nel mancato soccorso».
Chiarezza sulle eventuali omissioni - Maria Thomas, avvocata di diritto pubblico presso il Duncan Lewis Solicitors, in merito al naufragio ha sottolineato come sia necessario fare chiarezza sulle eventuali omissioni delle agenzie britanniche coinvolte nelle operazioni di coordinamento e nella missione di ricerca che avrebbe dovuto salvare i migranti che stavano annegando. «Attualmente vogliamo capire se ci siano state violazioni agli articoli 2 e 3 della Cedu. Prove di esperti indipendenti, ci dicono che eventuali gravi lacune abbiano portato alla morte di tutte quelle vite umane. Ad oggi abbiamo inviato una corrispondenza di pre-azione al governo britannico perché venga istituita una commissione d’inchiesta», conclude Thomas. «I familiari delle vittime e noi di Utopia 56, crediamo che se le persone avessero fatto quella chiamata di soccorso senza essere identificate come migranti, allora ci sarebbe stato un rapido intervento. Ora, insieme alle famiglie speriamo si apra un’indagine che possa giungere alla verità. Tutto questo non deve più accadere», ricorda Charlotte. «Dopo le accuse lanciate in Inghilterra e in Francia, nessuna risposta reale è arrivata dalle autorità dei due paesi» spiega Zana. «L’avvocata ha solo riferito a noi familiari che i britannici hanno risposto che le accuse debbano essere spostate verso il ministero dei Trasporti e non quelle marittime d’immigrazione». Intanto il governo del Kurdistan Iracheno sta facendo pressioni affinché vengano arrestati i trafficanti responsabili della tragedia. «Per il resto siamo soli», spiega Zana. «Accanto a noi, in questa battaglia c’è solo Utopia56». Nella regione autonoma del Kurdistan infatti, l’attenzione sul caso è riportata solo dai media. «Se la situazione dovesse rimanere così, non ci diamo per vinti. Porteremo il caso davanti alle Nazioni Unite se dovesse essere necessario ad avere la verità».
La ripresa delle traversate - Dopo la scomparsa delle 27 persone avvenuta nel Canale della Manica, sembrava quasi che i tentativi di attraversare il mare fossero rallentati. Eppure, non è stato affatto così. Ong e associazioni che ogni giorno lavorano a stretto contatto con i migranti sono consapevoli che a rallentare i viaggi in mare non sia stata la paura, ma un peggioramento delle condizioni climatiche. Helen, che lavora con l'organizzazione di primo soccorso FAST, dice di aver «sentito più tensione nei campi informali; in parte questo è direttamente collegato alla grave perdita che la comunità nel nord della Francia ha subito». Poi «non c'è stato alcun cambiamento con gli sgomberi violenti dei campi informali; sono continuati anche dopo la tragedia». Secondo la sua opinione, questo, unito al dolore ed al pensiero dei pericoli che si palesano tra le acque della Manica, «rende la vita delle persone ancora più difficile». Infine la volontaria ricorda come un passaggio sicuro sia «l'unica cosa che potrebbe dissuadere le persone a prendere misure così drastiche. Sarebbe utile anche a distruggere anche la forte industria del traffico umano che a Calais è così viva».
Nessuna intenzione di tornare indietro - I rifugiati bloccati a Calais non hanno alcuna intenzione di fare ritorno nei propri Paesi di origini o di rimanere nell’Europa Continentale. Omar, 16 anni, ha lasciato la Somalia due anni fa. «Sono stato imprigionato ad Atene. Fra Serbia e Romania invece, la polizia mi ha maltrattato. I poliziotti rumeni mi hanno impedito di prendere il mio spray contro l'asma e mi hanno picchiato. Ho pensato che sarei morto», ricorda. Yussuf, anche lui somalo, ripensa all'inizio del suo viaggio. «Un giorno alcuni terroristi sono entrati in casa e hanno ucciso mio padre. Poi ho capito che se fossi rimasto in Somalia, sarei morto anch'io».
Il limbo di Calais - C'è un po' di sconcerto per il fatto che la tragedia di novembre non ha portato altro che un aumento dell'attività della polizia sulla costa francese. Francine, che lavora per una delle ONG presenti nella regione di Pas de Calais, racconta: «Di recente stavo consegnando delle tende a chi ne era sprovvisto, ho iniziato a parlare con un ragazzo siriano che non parlava inglese. Così, per farsi comprendere meglio ha scritto sul suo telefono - visto che la gente è morta, il Regno Unito assicurerà un passaggio sicuro? Abbiamo paura». Respira profondamente Francine, e poi dichiara: «Sono ancora sconcertata da quanto letto». Nella regione di Pas- de- Calais, migliaia di persone vivono in un limbo, lontane dai centri abitati e perennemente in fuga dalla polizia locale che tenta in ogni modo di disperdere i migranti. «Sono qui da un anno» racconta Solomon, un giovane eritreo che quotidianamente aiuta le organizzazioni solidali non governative. «Siamo ben organizzati in questo campo. Le associazioni ci donano cibo, vestiti, che noi distribuiamo a tutti per evitare che qualcuno resti senza. E quando la gendarmerie viene a sgomberarci, noi spostiamo le tende». Poi in tono serio aggiunge: «Se questa sera il tempo sarà buono, cercherò di arrivare in Inghilterra. Ogni volta che le condizioni meteo sono favorevoli, io ci provo sempre a oltrepassare il Canale».