Il caso di Cloe, discriminata fino al suicidio per la sua scelta transgender, non è isolato. Anzi
“Subito dopo la pubblicazione di questo comunicato porrò in essere la mia autochiria, ancor più definibile come la mia libera morte (...) Ciò è il modo più aulico per vivere al meglio la mia vita e concluderla con lo stesso stile. Qui finisce tutto”. Così Cloe Bianco, ex professoressa di fisica in un istituto professionale in provincia di Venezia, lo scorso 10 giugno si è congedata dal mondo, dandosi fuoco all’interno del camper che era la sua dimora, in una vecchia discarica a ridosso della strada regionale 48 delle Dolomiti.
Annientata dal pregiudizio - La scelta di togliersi la vita era rimasta, per Cloe, l’unica via possibile per porre fine alle sofferenze quotidiane che viveva per via dei pregiudizi delle persone. La morte come unica soluzione per non sentire più quel senso di solitudine e isolamento a cui l’avevano condannata coloro che, un tempo, erano stati suoi familiari, amici e colleghi di lavoro. Quando ancora si chiamava Luca ed era un professore di fisica, sposato e con figli. Poi la scelta, nel 2015, di far aderire la propria immagine esteriore a quella che, da sempre, aveva interiorizzata dentro di sé, presentandosi davanti ai suoi alunni in abiti femminili. La sua scelta aveva fatto scalpore e, da allora, come lei stessa denunciava nel suo blog, vi erano stati numerosi “tentativi di annientamento” della sua persona. “Io sono brutta, decisamente brutta - scriveva Cloe - sono una donna transgenere. Sono un’offesa al mio genere, un’offesa al genere femminile. Non faccio neppure pietà”.
Non riconoscersi nel genere - Parole terribili nella loro crudezza ma che svelano la reale condizione di vita della maggior parte delle persone transgenere, ossia coloro che vivono una condizione di ‘disforia di genere’. Tale concetto, introdotto nel 1964 dallo psichiatra Robert Stoller, indica la “discrepanza, parziale o completa, tra il sesso assegnato alla nascita in base ai genitali esterni e il genere codificato dal cervello”. Si tratta, in sostanza, di percepire sé stessi come uomo, donna o genere alternativo, genderqueen, a prescindere dalla caratterizzazione sessuale assegnataci alla nascita. Una condizione che, in molti casi, provoca una enorme sofferenza nella persona interessata che non accetta il proprio aspetto esteriore, non corrispondente a quanto percepito interiormente, e, parimenti, non si sente accettato dalle persone vicine che, invece, dovrebbero fungere da sostegno. Il disagio di non riconoscersi nel corpo in cui si è nati assume una dimensione amplificata, in particolar modo, nel periodo dell’adolescenza quando, il non accettare se stessi e il non sentirsi accettati dagli altri, spinge queste persone a chiudersi maggiormente, negando la realtà dei fatti.
Stereotipi duri a morire - Nonostante dal 18 giugno 2018, la disforia di genere sia stata ufficialmente eliminata dalla sezione delle Malattie mentali dell’ICD-11, il sistema di classificazione internazionale di malattie e traumatismi, grazie all’intervento dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, ancora oggi tale condizione viene percepita, nel sentire comune, come una perversione della persona, una distorsione psichica magari riferibile a traumi subiti nell’infanzia. Il fatto poi che per accedere alle cure relative al cambio di sesso sia necessaria una diagnosi di incongruenza di genere continua ad alimentare, anche nella stessa persona transgenere, l’idea che tale condizione sia una malattia da curare. Inoltre, troppo spesso, si classificano le persone transgenere come soggetti dediti al travestitismo o alla prostituzione, nella convinzione che il voler vestire i panni di un sesso diverso dal proprio sia poi strumentale a lavorare nel mercato del sesso. Il sopravvivere di tali stereotipi origina una serie di problemi di discriminazione e violenza che colpiscono le persone transgender in svariati ambienti e vanno dall’abuso verbale o fisico, alla disparità o maltrattamenti subiti sul posto di lavoro e nei presidi sanitari.
Inchiodate da un documento - «Sono Melissa e sono nata ad El Salvador - racconta una di loro sul sito di Amnesty International - la mia vita in Italia è stata molto difficile come persona transgender con documenti che non mi rappresentavano come donna. Non sono riuscita a trovare lavoro e ho dovuto iniziare a prostituirmi». Anche Roberta, un'ex attrice che ha dovuto cambiare mestiere «perché non mi sentivo bene con i ruoli maschili», racconta di aver lavorato in nero come mobiliera, ma «venivo trattata come un maschio e per me era come morire ogni giorno». La discrepanza tra l’identità certificata nei documenti e quella realmente percepita ha, spesso, risvolti drammatici. Lo si è visto in occasione dell’invasione russa in Ucraina quando, centinaia di donne transgender sono state respinte al confine mentre tentavano di fuggire dal proprio Paese in guerra. Il motivo di tale trattamento è dovuto proprio al fatto che, nei documenti in loro possesso, fosse ancora dichiarata l’identità assegnata alla nascita. Attualmente l’Ucraina vieta alle persone di sesso maschile di lasciare il Paese e, dato che il cambio di nome e genere necessita di un iter lungo e doloroso, che prevede anche molte perizie psichiatriche, moltissime transgender si sono viste rifiutare il lasciapassare.
Nel mirino della violenza - In un mondo che si sta lentamente aprendo al mondo omosessuale, riconoscendo, in diversi Paesi occidentali, il giusto diritto di poter amare persone dello stesso sesso, le persone transgender sono ancora stigmatizzate per il loro modo d’essere. In numerosi contesti, il volersi veder riconoscere nella propria identità di genere, anche se difforme da quella esteriore, produce un effetto di rifiuto, quasi fosse una situazione macchiettistica, se non pruriginosa. Un qualcosa di stravagante ma che, in ogni caso, non riesce a far nascere un sentimento di empatia per la persona in questione. Che il mondo transgender sia ancora sconosciuto e mal interpretato lo dimostrano anche i drammatici dati relativi all’uccisione delle persone transgenere. Il 20 novembre dello scorso anno, in occasione del Transgender day of remembrance, sono stati diffusi i dati raccolti da Transgender Europe secondo i quali, dal 1 ottobre 2020 al 30 settembre 2021 sono state uccise 375 persone transgender. Tra il 2008 ed il 2021 sono state uccise 4.042 persone transgender di cui 1.645 in Brasile e 593 in Messico. Anche lo scorso anno, la maggioranza degli omicidi è avvenuta in America Latina ma sono raddoppiati anche negli Stati Uniti dove, la maggioranza delle vittime erano persone non bianche. In Europa, il 43% delle persone transgender uccise erano migranti con una prevalenza di casi in Italia, Turchia, Grecia, Francia, Russia e Spagna. Più di 9 vittime su 10 erano donne o si collocavano nello spettro di genere femminile.
Anche l'Europa arranca - Questi, è bene ricordarlo, sono i dati ufficiali ma il fenomeno è sicuramente sottostimato. Come ricordato da Storm Turchi, di Trans Watch Italia, «la politica si disinteressa alle questioni trans perché le ritiene minoritarie (...) Il modo in cui non si parla di noi da morte è speculare a come non si parla di noi mentre siamo in vita». In Asia, il Paese con il maggior numero di casi sono le Filippine, seguite da Pakistan e India. Sempre secondo il Transgender Europe, la situazione dei diritti delle persone transgender è disastrosa. Solo 8 Paesi europei, per esempio, permettono di modificare i propri documenti sulla base dell’autodeterminazione di genere con procedure che rispettano i diritti umani e solo due Paesi, l’Islanda e Malta, riconoscono le persone non binarie.
La maggior parte si nasconde ancora - Nella maggioranza dei casi si richiede una diagnosi medica o un intervento chirurgico per poter modificare i propri documenti mentre in Paesi come la Repubblica Ceca, la Romania o la Slovacchia, si richiede che una persona sia sterilizzata per potersi vedere riconosciuto dal punto di vista legale il proprio genere. L’Ungheria lo ha direttamente proibito. Secondo i dati diffusi dall’Agenzia Europea per i Diritti fondamentali, FRA, nel 2020, la maggior parte delle persone transgenere nascondono la propria identità per strada, nei locali, sul posto di lavoro e negli edifici pubblici per paura delle conseguenze che potrebbero derivare dal mostrarsi per come si è. Nel report del 2021 del Consiglio d’Europa si legge che “le persone transgender hanno il diritto di essere riconosciute dalla legge, di essere libere da discriminazioni e di vivere sicure come tutte le altre persone. È nostra responsabilità rendere questi diritti reali”. La speranza è che queste parole diventino fatti concreti, perché non ci sia più nessuno che veda nella “libera morte” l’unica via di fuga da una vita di discriminazione e violenza.