Nel mondo c’è ancora una morte per suicidio ogni 40 secondi. Eppure l'argomento rimane ancora oggi un tabù.
«Ho vissuto male per trent’anni, qualcuno dirà che è troppo poco. Quel qualcuno non è in grado di stabilire quali sono i limiti di sopportazione, perché sono soggettivi e non oggettivi. Ho cercato di essere una brava persona, ho fatto molti errori, ho cercato di darmi un senso e uno scopo usando le mie risorse, di fare del malessere un’arte». Così scriveva Michele, un giovane italiano di Udine, qualche anno fa. Era una lettera d’addio ai suoi famigliari prima di togliersi la vita perché «stufo di dover giustificare la mia esistenza senza averla determinata, stufo di dover rispondere alle aspettative di tutti senza aver mai visto soddisfatto le mie, stufo di fare buon viso a pessima sorte». La sua lettera, resa pubblica con il consenso dei genitori come occasione per riflettere sul dramma del suicidio, rappresenta quasi un testamento generazionale. «Questa generazione-scrive Michele-si vendica di un furto, il furto della felicità. Ho resistito finché ho potuto».
Quelli che non ce la fanno - In molti vivono, o meglio sopravvivono, fino a che ce la fanno per poi decidere di togliersi la vita. Capita a persone giovanissime e famose come la statunitense Kailia Posey, star del reality show Tls “Toddlers&Tiaras”, di appena 16 anni. Il fatto che il suo volto fosse noto a livello mondiale non le ha impedito di impiccarsi ad un albero di un parco vicino casa. Oppure capita a delle giovani mamme che, secondo il sentire comune, dovrebbero essere il ritratto della felicità, come Margherita che, nel Trevigiano, si è buttata da un ponte stringendo al petto il figlioletto di un anno, miracolosamente sopravvissuto. O la giovane donna che, solo pochi giorni fa, si è lanciata nel vuoto al Creux du Van, con i figli di 4 e 2 anni. Queste sono solo alcune delle tantissime storie di coloro che non sono più riusciti a sostenere il peso di una vita, diventata insopportabile, ed hanno deciso di rinunciarvi. Storie personali che si perdono, troppo spesso, nella fredda elencazione di numeri e dati statistici in continuo aggiornamento.
Un suicidio ogni 40 secondi - «Nonostante alcuni progressi fatti, nel mondo c’è ancora una morte per suicidio ogni 40 secondi ed ognuno di questi decessi è una tragedia per famigliari, amici e colleghi» ha dichiarato il direttore generale dell’Organizzazione mondiale della sanità Tedros Adhanom Ghebreyesus in occasione della Giornata mondiale per la prevenzione del suicidio, che si tenuta sabato. Ogni anno muoiono più persone a causa del suicidio rispetto all’Hiv, il cancro al seno e gli omicidi. Tra i giovani di età compresa tra i 15 ed i 29 anni il suicidio viene subito dopo gli incidenti stradali, la tubercolosi e la violenza interpersonale come causa di morte. Il tasso di suicidio globale, nel 2019, era di 10,5 per 100.000 di abitanti, con notevoli differenze da Paese a Paese.
Triste record per Corea del sud e Sri Lanka - Se è vero, infatti, che il 79% dei suicidi si verifica nelle Nazioni a basso reddito vi sono nazioni ricche, e definite ‘felici’, dove i tassi di suicidi sono paragonabili a quelli dei Paesi in via di sviluppo. Secondo i dati diffusi dall’Oms nel 2018, in Svizzera si sono registrati 17,2 suicidi ogni 100.000 abitanti. Uno dei più alti nei Paesi dell’Europa occidentale. La Finlandia, indicata come uno dei Paesi più felici al mondo, occupa il 32° posto a livello mondiale per tassi di suicidio dopo una serie di Paesi africani ed il Belgio. L’Islanda si posiziona al 40°, la Svezia al 51°, la Svizzera al 61° e la Danimarca all’89°. A livello mondiale, al vertice di questa drammatica classifica si colloca la Guyana, la Corea del Sud, lo Sri Lanka, il Suriname ed il Mozambico mentre, nel continente europeo la Lituania ed il Belgio. Viene da chiedersi come mai Paesi in forte crisi politica ed economica come l’Italia e la Grecia registrino, invece, tassi di suicidi inferiori ai Paesi nordici che, sulla carta, rappresentano l’essenza dello sviluppo sociale e della democraticità.
L’infelicità sta a Nord - Questi dati dimostrano che il delicato tema del suicidio sfugge a superficiali letture su cosa possa rendere o meno felice la vita di una persona. Secondo uno studio voluto dal Consiglio dei ministri Nordico, condotto tra il 2012 ed il 2016, il 12,3% della popolazione dei Paesi Nordici vive in condizioni di infelicità e sofferenza psicologica. La percentuale sale al 13,5% tra i giovani di età compresa tra i 18 ed i 23 anni e al 19,5% se si considerano solo le ragazze svedesi. Anche le persone anziane non se la cavano meglio ed il 16% degli over 80 scandinavi ha dichiarato di vivere in condizioni di sofferenza per problemi di salute e senso di solitudine. In Norvegia, nello stesso periodo di riferimento, il disagio mentale dei giovani è aumentato addirittura del 40%. L’Europa è la regione al mondo dove avvengono più suicidi mentre il Mediterraneo orientale quella dove ne avvengono meno. Sempre secondo i dati diffusi nel 2019, è possibile constatare che i decessi per suicidio sono diminuiti di un terzo tra il 1990 ed il 2016, mentre il numero assoluto di decessi per suicidio è aumentato del 6,7%. Il tasso di suicidi è in forte crescita anche nelle Americhe dove sono aumentati del 17%.
Poche le strategie di prevenzione - Attualmente sono pochissimi i Paesi che hanno adottato una strategia nazionale di prevenzione del suicidio e la stessa Organizzazione mondiale della Sanità si è prefissata l’obiettivo di una riduzione di un terzo del tasso globale dei suicidi entro il 2030. A tale scopo ha predisposto una guida completa sulle strategie da adottare che comprendono il limitare l’accesso ai mezzi atti a porre in essere un suicidio, come i pesticidi altamente pericolosi, educare i media alla denuncia responsabile del suicidio, il promuovere le abilità socio-emotive negli adolescenti e l’identificazione, la valutazione e la gestione dei comportamenti a rischio.
Meno pesticidi in Sri Lanka - Nello Sri Lanka, ad esempio, una serie di limitazioni all’accesso dei pesticidi ha ridotto del 70% il tasso dei suicidi tra il 1995 ed il 2015, salvando così circa 93.000 vite. Il reperire, con una certa facilità, uno strumento idoneo a togliersi la vita, sia esso un’arma da fuoco o delle sostanze velenose, facilita l’intento suicidario ma non è un elemento sufficiente a spiegare la ragione per cui una persona decide di farla finita. Il gesto del suicidio conserva un nucleo insondabile, così come lo è la sofferenza della persona che decide di togliersi la vita.
Le ragioni di un gesto - L’analisi razionale delle varie ragioni, la perdita del lavoro, l’emarginazione sociale, la dipendenza dalle droghe o dal gioco d’azzardo, una delusione amorosa o la paura del futuro, permette solo di conoscere quella che rappresenta la classica ‘goccia che fa traboccare il vaso’. Ma tali ragioni coesistono con un senso di sfiducia, di perdita del senso di sé e della vita, un senso di fallimento generalizzato che condiziona ogni aspetto della propria vita fino a diventare totalizzante.
I segnali d'allarme - Secondo gli esperti esistono comunque dei segnali d’allarme che non bisogna ignorare. Lo stoccaggio di medicinali, la ricerca di armi da fuoco, la consegna di oggetti personali o di un messaggio d’addio. Chi coltiva il pensiero di potersi suicidare, solitamente, parla, in maniera diretta o indiretta, della propria intenzione di togliersi la vita, ventilando che la morte possa rappresentare per loro una liberazione. Occorrerebbe raccogliere tale grido d’aiuto che, troppo spesso, viene invece ignorato. La realtà è che il suicidio rimane un tabù di cui è difficile parlare apertamente. Come detto dalla stessa Organizzazione mondiale della sanità «in gran parte del mondo, il suicidio viene stigmatizzato e condannato per motivi religiosi e culturali. In alcuni paesi il comportamento suicidario è un reato punibile per legge. Il suicidio è quindi spesso un atto segreto circondato da tabù e può perciò non essere riconosciuto o erroneamente classificato».
L'effetto Werther - Affrontare con chiarezza e coraggio il tema del suicidio è difficoltoso perchè, in primo luogo, si teme l’effetto ‘Werther’, che prende il nome dal protagonista dell’opera di Goethe ‘I dolori del giovane Werther’, ossia l’effetto emulativo che coinvolge, però, persone già predisposte a questo tipo di azione. Più che altro, nell’accostarsi alle drammatiche storie di chi ha scelto di togliersi la vita, risulta difficile emanciparsi da un certo di tipo di mentalità giudicante che punta il dito sulla presunta debolezza, se non viltà, del suicida. Come se la volontà di morire fosse una scelta di comodo da parte di chi è troppo egoista e viziato per affrontare le difficoltà della vita. Così non è, e occorrerebbe sviluppare un atteggiamento di maggiore empatia che ci faccia comprendere le ragioni che si celano dietro un gesto tanto estremo.