Le storie dei ragazzi iraniani che hanno pagato con la loro stessa vita il sogno di un Paese liberto dall'inflessibile regime religioso.
Sono oltre 500 le persone uccise durante le proteste in Iran. Uomini, donne e bambini che non vedranno più la luce del sole perché barbaramente ammazzati dalle forze di repressione. Vite spezzate in nome della libertà, così fortemente voluta dal popolo iraniano e così fermamente negata da coloro che impongono, da decenni, un violento regime religioso. Mahsa, Nika, Hadis, Shekar, nomi diventati familiari anche in quella fortunata parte del mondo che assiste, in un immobilismo attonito, all'eco di una tragedia che ci coinvolge ma sembra non appartenerci.
Giovani che si sono eroicamente immolati per non venir meno al proprio credo, fatto di democrazia e libertà e non di precetti religiosi imposti con la paura. A fronte di tanti nomi divenuti celebri, sono centinaia le morti che si perdono nell'anonimato della Storia ma che non sono meno importanti, anzi. Tutte loro testimoniano lo spirito indomito di un popolo che sta pagando con la vita la propria lotta per i diritti umani.
La scintilla della Rivoluzione - Era lo scorso settembre quando si è diffusa la notizia della morte di Mahsa Amini, una giovane donna curda di appena 22 anni, arrestata, per aver indossato lo hijab in «modo improprio», ossia lasciando scoperta una ciocca di capelli. La ragazza era poi deceduta in ospedale il 16 settembre, tre giorni dopo il suo arresto, a seguito di gravi ferite riconducibili ad un violento pestaggio che le aveva provocato, oltre a numerose fratture ossee, l'emorragia cerebrale che le è stata fatale. La morte della giovane è divenuta, in breve tempo, simbolo della sofferenza delle donne iraniane sotto il regime dell'ayatollah Khamenei, sollevando un coro di indignazione sia a livello nazionale che internazionale.
Proprio in nome di Mahsa ha avuto inizio una rivolta popolare che, dall'iniziale richiesta di libertà per le donne oppresse, si è poi estesa fino a riguardare ogni aspetto civile della società iraniana: dal diritto alla studio alla libertà di espressione, fino alla critica del regime stesso. Una rivolta che non si placa, nonostante la durissima repressione imposta con le violenze fisiche e le condanne a morte arbitrarie, ma che sta lasciando dietro di sé una scia di sangue. Hadis Najafi ha sfidato la dittatura religiosa con una coda di cavallo. Un gesto rivoluzionario, in un Paese in cui è obbligatorio indossare lo hijab, ma che l'ha portata alla morte, nella sua città di Karaj, vicino a Teheran lo scorso settembre. La ventenne «aveva il cuore spezzato per Mahsa», come ha poi riferito la sorella, e in un video divenuto virale la si vede legarsi i capelli, liberi dal velo, in un coda prima di scendere in piazza a protestare. La giovane è stata uccisa da «sei proiettili al petto al collo e al cuore», sparati dalle forze dell'ordine ad altezza d'uomo.
La ciocca di capelli che ha portato alla morte - Pochi giorni dopo la sua uccisione, la Bbc aveva diffuso un audio in cui una ragazza diceva di essere lei la protagonista del famoso video. «Sono io quella ragazza che si lega i capelli e scende in strada, io non sono Hadis Najafi ma combatto per tutte le Hadis e le Mahsa». Lo scambio di persona, dovuto alla grande somiglianza tra le due ragazze, non toglie comunque nulla alla drammaticità della situazione ma testimonia, al contrario, come un forte senso di ribellione coinvolga sempre più le giovani iraniane.
Le donne di ogni età, hanno iniziato a tagliarsi i capelli in piazza, a bruciare il velo in improvvisati roghi, con la solidarietà anche di coloro che il velo lo hanno scelto liberamente come simbolo di un credo sentito. C'è anche chi, come Mahak Hashemi, di appena 16 anni, ha pensato di sostituirlo con un cappellino da baseball e per questo ha pagato con la propria giovane vita. A fine novembre scorso, la ragazza era uscita, come ogni mattina, per recarsi a scuola senza però fare ritorno a casa. I genitori hanno ritrovato il suo corpo all'obitorio cittadino drammaticamente deformato per le manganellate ricevute che le hanno spezzato la schiena. Al dolore, poi, si è aggiunto ad altro dolore quando ai familiari è stato richiesto un riscatto altissimo per ottenere il corpo della propria figlia con il divieto, comunque, di celebrare una qualsiasi forma di funerale o di ricordo pubblico.
Anche Asra Panahi aveva solo 16 anni ed è morta, lo scorso 13 ottobre, a seguito di un pestaggio delle forze di sicurezza. Secondo quanto denunciato su Telegram dal Consiglio di coordinamento dei sindacati degli insegnanti in Iran, la ragazza sarebbe stata picchiata, insieme ad altre compagne di classe, a seguito di un blitz compiuto dalle forse di sicurezza nel liceo femminile 'Shaded' di Ardabil, nel nord-ovest del Paese. Le giovani si sarebbero rifiutate di cantare un inno in onore di Khamenei e della Repubblica islamica e questo avrebbe scatenato la furia dei poliziotti.
Il coraggio di non cedere al terrore - Molte studentesse sono finite in carcere o all'ospedale, mentre Asra è morta per il coraggio di non cedere al terrore imposto dal regime. Nika Shakarami è morta, a 17 anni, in circostanze ancora poco chiare. Era scomparsa di casa il 20 settembre scorso e il suo corpo è stato restituito ai genitori dieci giorni dopo la sua scomparsa. Nonostante sia stato loro impedito di vederlo per intero, la madre e la zia della ragazza hanno dichiarato che «aveva il naso rotto e ferite alla testa». Nel certificato di morte, il decesso è attribuito «a colpi multipli causati da un oggetto duro». Per la polizia la ragazza si sarebbe buttata da un palazzo, ma i familiari sono convinti che sia stata uccisa durante le proteste di piazza.
Una volta recuperato il cadavere, la famiglia ha trovato sul corpo della ragazza evidenti segni di stupro, torture e violenze: c'erano suture e cuciture fatte a mano e gli organi interni erano stati rimossi. Inoltre, nonostante Nika dovesse essere sepolta nella sua casa città natale di Khorram Abad, ma il suo corpo è stato prelevato dall'obitorio dalle forze di sicurezza e seppellito nel villaggio di Vsian senza la presenza di parenti o amici, probabilmente per far calare il silenzio su questa drammatica vicenda.
A fianco delle donne e delle ragazze iraniane, combattono per la libertà anche i giovani iraniani che chiedono parità di trattamento e un regime democratico che vada a sostituire quello teocratico attualmente al potere. Arrestati, torturati e stuprati, così come le loro compagne di lotta, ad oggi quattro dissidenti, delle oltre 20 persone condannate a morte dopo processi farsa, sono stati uccisi. L'8 dicembre le autorità hanno messo a morte Mohsen Shekari, dopo averlo condannato per «grave inimicizia contro Dio», meno di tre mesi dopo il suo arresto. Il termine 'moharebeh', in farsi, significa 'guerra contro Dio' e comporta la pena capitale. L'uomo era accusato di aver bloccato una strada e di aver attaccato un membro delle forze di sicurezza con un machete a Teheran. Prima di venire ucciso, il giovane era stato costretto, sotto tortura, a registrare una confessione e la sua famiglia è stata privata del suo corpo per una degna sepoltura.
«Non piangiate sulla mia tomba né che leggiate il Corano» - Il 12 dicembre, invece, è stato messo a morte pubblicamente il ventitreenne Majidreza Rahanvard, a Mashahd, nella provincia Khorasan-e Razavi, dopo essere stato condannato per «grave inimicizia contro Dio». Comparso davanti alla stampa con gli occhi bendati ed un braccio visibilmente rotto, a chi gli chiedeva quali fossero le sue ultime volontà, il giovane ha detto «non voglio che piangiate sulla mia tomba né che leggiate il Corano o preghiate. Voglio che siate felici e suoniate musica allegra». Il video della sua esecuzione è stato pubblicato sul sito della magistratura iraniana: in esso si vede il corpo del giovane lasciato pendere da una gru alla presenza di molti agenti con il capo coperto e un gruppo di persone la cui presenza sarebbe una macchinazione del regime per dimostrare il sostegno alla lotta di repressione della popolazione civile.
Alcuni giorni fa, in occasione della festa della mamma, l'ayatollah Seyyed Ali Khamenei ha incontrato un gruppo di donne iraniane provenienti dalle «èlite femminili attive nelle aree scientifiche, sociali e culturali», così come riferito dall'agenzia di stato Irna. Durante questo incontro il leader iraniano ha tenuto un atteggiamento ondivago, e se, da una parte, ha affermato che «gli occidentali affermano sfacciatamente di essere sostenitori dei diritti delle donne, mentre lì sono ancora sottoposte alla schiavitù sessuale (…) hanno anche legalizzato l'omosessualità», ha altresì dichiarato che «è necessario preparare le condizioni affinché le donne iraniane efficienti, istruite e sagge siano impiegate nei centri decisionali». Inoltre, senza mai far accenno diretto alle rivolte in corso, Khamenei ha affermato che le donne che non coprono totalmente i capelli con lo hijab non devono essere accusate di non essere religiose perché «rimangono nostre figlie». Un timido spiraglio, un minuscolo tentativo di mediazione, forse troppo piccolo per una popolazione assettata di libertà.