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Elon Musk ha detto... Ma è una notizia?

Di questi tempi, il passo che separa tweet e news è spesso molto breve. Soprattutto quando si parla di personaggi di primo piano.
Di questi tempi, il passo che separa tweet e news è spesso molto breve. Soprattutto quando si parla di personaggi di primo piano.
Perché accade? E con quali conseguenze? Ne parliamo con Philip Di Salvo, ricercatore post-doc dell’Institute for Media and Communications Management dell’Università di San Gallo.

Ogni volta che Elon Musk twitta, c'è qualcuno che scrive una notizia. Ben lo sanno gli addetti ai lavori; e ben se ne rendono conto i lettori. Poco importa se poi stia parlando dell'acquisto multimiliardario di Twitter, soffiando in poppa alla flotta dei negazionisti del Covid-19, annunciando il nome - rigorosamente in codice - di suo figlio (il piccolo X Æ A-12) o solo ammazzando il tempo facendo fluttuare il valore della criptovaluta di turno. In ogni caso, il lancio di qualche agenzia di stampa è sempre dietro l'angolo.

Ma quello di Musk non è certo un caso unico. Lo stesso è accaduto durante il mandato alla Casa Bianca di Donald Trump. L'allora presidente degli Stati Uniti twittava compulsivamente a ogni ora del giorno. E su qualsiasi cosa. Ma davvero ogni parola spesa da chi occupa ruoli di primo piano è sempre degna di essere considerata una notizia? Perché accade? E con quali conseguenze? Ne abbiamo parlato con Philip Di Salvo, ricercatore post-doc dell’Institute for Media and Communications Management dell’Università di San Gallo.

Prima era Donald Trump. Ora Elon Musk. Ma si potrebbero fare tanti altri nomi. Perché ogni loro parola, ogni tweet, anche il più insignificante, diventa notizia?
«Di per sé non è un fenomeno nuovo. Era già così prima di internet e dei social media. La differenza va cercata in due ambiti diversi. In primis, il fatto che avendo gli strumenti per dire più cose, e penso in particolare ai social media, le persone dicono più cose. Di conseguenza ci sono più materiali da cui anche la stampa può attingere. In secondo luogo, parlando del giornalismo c’è più “spazio” da riempire. Non si tratta più solamente di una foliazione di pagine prestabilita per un giornale cartaceo, o un certo minutaggio in radio e in televisione, ma bisogna di fatto riempire degli spazi digitali, che richiedono molti più contenuti di quelli che forse la realtà è in grado di offrire. Quindi, la soglia di ingresso affinché un’informazione diventi “una notizia” si è abbassata. Fatta questa premessa, mi sento di aggiungere che ci sono alcuni personaggi che continuano a fare notizia nel corso di settimane, penso ad esempio a Elon Musk, perché diventano essi stessi un tema. E di conseguenza qualunque cosa possa essere scritta o detta nei riguardi di quel tema verrà scritta e detta. Quindi non mi stupisce che, di questi tempi, l’attenzione su Elon Musk sia così serrata. Tutto questo è utile? Deve per forza essere così? Io credo di no. Nel senso, che questo è spesso la conseguenza di fenomeni diversi, che non sono l’espressione del miglior giornalismo possibile. Non era scritto da nessuna parte che il giornalismo online dovesse necessariamente andare in quella direzione. Però, il sensazionalismo, la corsa allo scoop facile, l’attenzione spasmodica verso i personaggi pubblici, di certo non sono nati con internet. La stampa scandalistica esiste da sempre. Ovviamente tutto questo si è riversato anche online. E in questo, internet è un gigantesco moltiplicatore».

AFPChi non ricorda i tweet compulsivi di Donald Trump durante la sua presidenza? Prima del suo ban, innescato dall'assalto a Capitol Hill del 6 gennaio 2021, il tycoon era un assiduo utilizzatore della piattaforma.

La concorrenza, che non è più limitata ai soli media ma pone ormai questi e altre piattaforme (e altri format) all'interno di un campo d'azione comune, ha accentuato questo fenomeno?
«Sì, c’è una riflessione da fare in questo senso. Il giornalismo online, spesso, è fatto anche seguendo il trending topic del giorno. Seguendo la polemica del giorno, o "le parole chiave" dei risultati di ricerca. Quindi c’è da questo punto di vista da parte del giornalismo - e da parte di chi decide di seguire queste strategie - anche una rincorsa rispetto a quello che le persone dicono, scrivono o verso cui prestano attenzione online. Anche qui non c’è nulla di nuovo. È inutile fare sempre gli eroi del giornalismo, perché si è sempre stampato ciò che il pubblico voleva sentirsi dire. E nel contesto digitale questo è misurabile con le metriche. Quindi se in questi giorni, in mezza Europa si parla del principe Harry è chiaro che anche il giornalismo andrà in qualche modo a inseguire. Poi, sicuramente, una delle peculiarità del giornalismo digitale contemporaneo è che questo sia in concorrenza non solo con sé stesso ma anche con tutto ciò che fa capo a ciò che si può trovare online. Pensiamo all’intrattenimento. Lo stesso Netflix oggi è un concorrente, in qualche modo, del giornalismo perché entrambi operano nei confronti dell’attenzione del pubblico. E ricavare uno spazio nell’attenzione degli esseri umani è diventato ancora più difficile».

In questo mare di “tizio ha detto che”, l’informazione inevitabilmente si annacqua. Perde di consistenza. C’è anche questo alla base di quella disaffezione - la cosiddetta “news avoidance” - da parte del pubblico verso le notizie? C’è sempre stato chi prestava poca attenzione alle notizie. Ma ora abbiamo una fetta sempre più consistente del pubblico che le evita attivamente…
«Sicuramente anche questo contribuisce. Possiamo citare un esempio piuttosto calzante: il giornalismo politico in Italia, che è estremamente peculiare. Se si apre un quotidiano cartaceo italiano qualsiasi, ci sono di norma una decina di pagine dedicate alla politica nazionale. E buona parte di queste sono dichiarazioni di persone. C’è la questione “x”, con il politico “A” che ha detto una cosa, il politico “B” che ha replicato in quel modo e il politico “C” che ha affermato altro ancora. E questo credo sia uno dei problemi del giornalismo politico italiano, che finisce spesso per essere pura stenografia di dichiarazioni rilasciate da personaggi pubblici, che sicuramente vanno riportate ma che dubito possano poi condurre a un effetto di informazione veramente utile. Il fatto che nel merito di una singola questione ci siano venti voci che dicono cose discordanti è un dato di fatto ed è, ovviamente, giusto e sano per la politica. Ma non credo che aiuti il pubblico veramente a capire quali sono le poste in gioco, i problemi e le questioni di cui si parla. E di conseguenza neanche a formulare delle scelte politiche consapevoli. Non dico che non andrebbe fatto del tutto. Ma non è la strategia più efficace per spiegare al pubblico quali sono questi grandi temi. Perché alla fine di questo si tratta. Ancor di più, e questo è un fenomeno ancora più recente, nei confronti dei temi scientifici. Prendiamo come esempio il cambiamento climatico: si tratta di un fenomeno certificato dal 99.9% degli scienziati del mondo e dare lo stesso spazio ai negazionisti è un esercizio di disinformazione».

E in questo anche la pandemia ci ha messo il carico…
«E in quei casi si è visto anche di peggio. Lo spirito era quello di dare voce al personaggio scomodo. C’era un po’ questo falso mito. Un personaggio scomodo che, nella maggior parte dei casi, è qualcuno che semplicemente nega la bontà dei dati scientifici. E lo fa per ignoranza, o ancora peggio».

TipressTra le ragioni citate nei sondaggi del Reuters Institute for the Study of Journalism in merito al perché vengano evitate le notizie, la più ricorrente (43%) è l'eccesso di contenuti legati al Covid-19 e alla politica.

Tornando alla "news avoidance". Nella pandemia ha trovato certamente un grande alleato*. Ma quali possono essere le altre cause?
«Non credo si possa dare una risposta univoca. Molto fanno il contesto e la cultura giornalistica di ogni singolo paese. Ma di sicuro, oltre alla già citata concorrenza sull’attenzione, ci sono altri fattori come l’abbassamento degli standard giornalistici, che non è esclusivo del mondo online ma è evidente su tutti i tipi di media. Per motivi economici, culturali e di risorse. D’altro canto penso possa esserci anche altro. Chi si spaventa o non si fida. Di sicuro la pandemia è stato un momento di riavvolgimento delle modalità dell’informazione. È stata come un’esplosione dell’informazione, perché non credo ci sia mai stato così tanto giornalismo come nei mesi più violenti della pandemia. E non ci sia mai stato così tanto bisogno di giornalismo come in quel momento. E non sempre quello che si è visto è stato degno di questa responsabilità. Perché in quel momento abbiamo vissuto letteralmente all’interno del giornalismo. Il giornalismo era l’inizio e la fine del mondo per tutti. E forse siamo ancora dentro a quella “bolla”. Dobbiamo ancora capire come il giornalismo ne sia uscito».

*Secondo l'ultima edizione del Digital News Report - pubblicato nel 2022 dal Reuters Institute for the Study of Journalism - la crescita della disaffezione verso l'informazione e le notizie - la cosiddetta "news avoidance" - da parte del pubblico, è un fatto attestato e generalizzato in numerosi paesi. Citiamo testualmente: «Se il susseguirsi di momenti critici, dalla pandemia all'invasione in Ucraina, ha dimostrato l'importanza di un giornalismo indipendente e professionale, e una crescita sensibile per alcuni media, vediamo anche che molte persone risultano sempre più scollegate dall'informazione». E la «sfida critica per i media» oggi è quella di riuscire a «collegarsi con persone che hanno accesso a una quantità senza precedenti di contenuti online e convincerli che prestare attenzione alle notizie ha un valore». E tra le ragioni citate nei sondaggi in merito al perché vengano evitate le notizie, la più ricorrente (43%) è l'eccesso di contenuti legati al Covid-19 e alla politica.

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