Il quadro del conflitto tratteggiato dal reporter di guerra Lorenzo Cremonesi che ha seguito per mesi i combattimenti.
KIEV - Non c’è pace per l’Ucraina. L’esercito russo, forte dei successi dei mercenari del gruppo Wagner, preme sulla città di Bakhmut. I soldati di Kiev resistono. Un corpo a corpo che sta provocando migliaia di vittime su entrambi i fronti. A quasi un anno dall’inizio del conflitto, attraverso lo sguardo del reporter di guerra Lorenzo Cremonesi che per mesi ha seguito i soldati ucraini sul campo di battaglia, ripercorriamo le dinamiche principali.
«Il dato più significativo è il grande fallimento russo. Putin era riuscito negli ultimi anni a costruire un’aura di superpotenza che di fatto non esiste. Un’immagine della Russia proiettata verso il ritorno a una dimensione imperiale». La realtà è stata infatti un’altra. «Quello che abbiamo potuto vedere è un’incapacità a capire la forza del nemico, le strategie messe in campo e soprattutto a prevedere la risposta dell’Occidente».
È rimasto sorpreso della débacle di Mosca?
«Sono arrivato a Kiev pensando di trovare i carri armati di Mosca in piazza Maidan. Ma già a metà marzo avevo capito che l’immagine di superpotenza russa non esisteva. Ho cercato subito di spiegare questo aspetto, quando tutti (compresi gli alleati di Kiev) pensavano che gli ucraini non avrebbero resistito. Mi sono reso conto che la guerra era molto più complessa e che Putin aveva commesso un enorme errore. L’esercito russo non era pronto».
Come si spiega la sfiducia verso la resistenza ucraina all’inizio del conflitto?
«La reazione e la resistenza ucraina hanno stupito tutti. Oggi ormai è una guerra diversa. Inizialmente gli ucraini erano soli, hanno resistito con le proprie forze. Solo in seguito sono giunte le armi occidentali. L’idea che spesso viene pubblicizzata è che sia una guerra americana. Non è una guerra americana o almeno non lo è stata. Oggi lo è nella misura in cui Washington sostiene militarmente Kiev. Ma non sono stati gli americani o la Nato a volere la guerra».
Nel suo libro “Guerra infinita” parla di un’Europa impreparata alla guerra, addirittura incapace di capire la resistenza ucraina. Lei crede che ci sia stata una presa di coscienza maggiore?
«La nostra opinione verso la guerra è ambigua. All’inizio, quando gli ucraini erano chiaramente le vittime, ci siamo schierati al loro fianco. A noi piacciono le vittime, ma soprattutto quelle che perdono. Quando le vittime hanno reagito, hanno alzato la testa, causando a loro volta altre vittime all’aggressore, la nostra reazione è stata ambivalente. In Occidente assistiamo a slogan pacifisti: «Non mandiamo le armi». Senza renderci conto che non mandare le armi significa permettere ai russi di vincere.
L’Occidente si prepara a inviare nuove armi a Kiev. Potrebbero significare un’ulteriore svolta alla guerra?
«Le nuove armi aiuteranno senz’altro l’esercito di Kiev, ma non si tratta di una svolta. Ora è difficile fare previsioni. I russi stanno affrontando enormi difficoltà che verranno ancora più alla luce con questi nuovi armamenti. Ma non vedo quindi segnali di grandi cambiamenti nell’andamento della guerra».
La controffensiva ucraina ha portato alla liberazione di molte città e villaggi in mano ai russi. È partita una caccia ai collaborazionisti che ha rischiato di coinvolgere anche persone innocenti.
«È una delle conseguenze del conflitto. La guerra non va mai bene e causa violenze e sofferenza. La caccia ai collaborazionisti vede errori tragici e invidie tra vicini. Ho seguito le unità ucraine che liberavano la regione di Kherson. Le unità di attacco d’élite sono sempre seguite da uomini dell’Intelligence che si occupano d'individuare i responsabili di spionaggio e di collaborazione con i russi. Senza dubbio ci possono essere stati degli errori».
La controffensiva ucraina ha portato alla liberazione di molte città e villaggi in mano ai russi. È partita una caccia ai collaborazionisti, quale aspetto ti ha colpito?
«Nelle piazze principali di molte città ucraine ci sono le lapidi dei nomi delle vittime della guerra del 2014. I russi, quando sono arrivati, controllavano i nomi delle famiglie scritte sui muri e andavano a prendere i parenti per punirli. Un motivo di repressione. Chi poteva nascondeva quelle lapidi e le distruggeva. Invece gli amministratori locali filorussi le lasciavano, così i soldati di Mosca potevano dare la caccia alle persone ostili all’invasione. Le unità ucraine quando liberano le città chiedono alla popolazione che è l’amministratore che aveva deciso di lasciare le lapidi».
La sua intervista con il presidente Zelensky pubblicata sul Corriere della Sera è stata un’esclusiva della stampa italiana, come è stato l'incontro?
«Molto interessante. L’hanno accusato di essere un attore. Ma l’ho trovato molto naturale e spontaneo. Un uomo molto autentico. Mi sono fatto ingabolare? Magari. Ma è da tanto tempo che faccio questo mestiere e non ho colto alcuna ambiguità nelle sue parole. È stato un incontro a ruota libera senza alcun tipo di condizionamento».