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Quando l'università ti uccide

La recente morte di una studentessa a Milano riapre il dibattito sulla salute mentale dei giovani, fra aspettative e (immancabili) delusioni
La recente morte di una studentessa a Milano riapre il dibattito sulla salute mentale dei giovani, fra aspettative e (immancabili) delusioni

Una ragazza di neanche vent'anni si è impiccata nei bagni dell'Università Iulm di Milano. In un biglietto, dopo aver ringraziato parenti ed amici, che sentiva vicini e solidali, ha definito la propria vita un fallimento. Vent'anni appena e sentirsi falliti, magari per un esame non dato o per un corso di studi che si prolunga molto oltre il dovuto. Sentirsi falliti perché non ci si sente all'altezza di standard di competitività ed eccellenza che ci si è posti, magari prendendo per buona la vita fatta solo di successi delle star dei social. «A 20 anni non si può morire chiedendo scusa per i propri fallimenti - ha dichiarato il collettivo universitario Cambiare Rotta - un gesto estremo che conferma come questo modello di eccellenza sia un modello che uccide, come questo sistema sia fallimentare per gli studenti».

È sempre sbagliato parlare di suicidi in termini generali. Dietro la decisione di togliersi la vita c'è una persona, con un vissuto e una personalità diversa da quella di coloro che hanno preso una decisione altrettanto estrema. Rimane pur vero però che, in questi ultimi anni, sempre più casi di cronaca abbiano riguardato il suicidio di studenti universitari, in Europa così come nel resto del mondo. Nel giro di due anni, in Italia, il fenomeno del suicidio tra gli studenti universitari è fortemente cresciuto e ci si interroga su quale possa essere, a prescindere dalle problematiche individuali, il comune denominatore di storie così drammatiche.

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Giovani sotto pressione

Il 7 ottobre del 2022 era stato ritrovato, senza vita, il corpo di uno studente, di appena 23 anni, iscritto alla facoltà di Giurisprudenza di Bologna. Aveva detto ad amici e parenti che si stava per laureare ma, in effetti, gli mancavano ancora diversi esami per conseguire il titolo di studio. Sempre a Bologna, il 9 ottobre del 2021, si era tolto la vita un altro studente fuorisede: aveva invitato i suoi cari in città per partecipare alla sua laurea che, in realtà, non doveva avere luogo. Nel luglio dello scorso anno, uno studente della Facoltà di Medicina dell'Università di Pavia, aveva scritto una email al Rettore, in cui confidava la paura che gli venisse tolta la borsa di studio e la possibilità di vivere negli alloggi dell'ateneo. Si era poi suicidato. Nel luglio del 2021, un ragazzo di 25 anni, studente dell'Università Federico II di Napoli, era stato trovato senza vita all'interno della Facoltà di Lettere. Anche in questo caso, il percorso di studi descritto ai genitori non corrispondeva a quello realmente intrapreso. Nell'aprile del 2018, un'altra studentessa della Federico II si era tolta la vita lanciandosi da una terrazza dell'Ateneo mentre, nell'Aula Magna, i parenti aspettavano di vederla discutere la tesi che, anche questa volta, non era stata scritta. Ancora una volta, la paura di dover affrontare la realtà, con il supposto bagaglio di delusione e amarezza famigliare, ha indotto molti giovani a scegliere la morte.

L'incancellabile stigma del fallimento

Secondo quanto dichiarato all'Espresso dalla professoressa Antonella Curci, ordinaria di Psicologia generale all'Università di Bari, «non c'è mai solo una causa a motivare gesti così estremi come il suicidio. Sarebbe limitante incolpare solo l'Università ma certamente la pressione sociale che gli studenti vivono tutti i giorni potrebbe essere la goccia che fa traboccare il vaso». Il vivere in una società che ci vuole sempre performanti genera un ansia da prestazione che può diventare difficilmente sostenibile. Alla paura di deludere quelle che sono le nostre aspettative, si somma poi il timore del giudizio altrui e, sotto tale lente deformante, qualsiasi intoppo e umana caduta diventa una sentenza di condanna. Lo stigma del fallimento ricorre spesso nei casi descritti. La difficoltà di passare un esame o il finire, per vari motivi, nel girone dantesco dei 'fuoricorso' confliggono con l'idea, sempre più diffusa, che il percorso verso la laurea vada bruciato sempre più in fretta, in una visione totalmente utilitaristica della carriera universitaria. La narrazione dei media, e i commenti sui social network non fanno, poi che amplificare il divario tra coloro che “ce la fanno” e, la maggioranza silenziosa che, invece, rimane indietro non approfondendo però le differenza che passano tra caso a caso, tra chi può scegliere una università privata e chi, si uccide per paura di perdere un alloggio universitario. Il tema, come detto, è delicato e qualsiasi semplificazione risulta fuori luogo: non si possono ridurre a meri numeri statistici, i nomi di coloro che hanno deciso di togliersi la vita, qualsiasi ne sia il motivo.

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Da Oriente a Occidente, è un fallimento globale

Un dramma, come detto, che riguarda diversi Paesi nel mondo. Nel 2020, come riportato del Ministero dell'Istruzione nipponico, il numero di suicidi tra gli studenti giapponesi ha toccato la cifra record di 415, il 31% in più rispetto all'anno precedente. Si tratta della cifra più alta registrata dal 1974, anno il cui il Governo ha iniziato a tenere conto di tale preoccupante fenomeno. Il numero delle studentesse è raddoppiato, toccando le 138 vittime. Tradizionalmente il periodo con più suicidi si registra tra la fine di agosto e i primi di settembre, in concomitanza con l'inizio del secondo semestre. Come affermato da Eguchi Arichika, capo della divisione per gli affari dei bambini e degli studenti del Ministero dell'Istruzione, «l'aumento dei suicidi è estremamente allarmante», anche in considerazione del fatto che riguarda studenti delle scuole elementari e medie.

La pandemia ha amplificato dei problemi pregressi, come il vivere in ambienti familiari malsani e il dilagante fenomeno del bullismo nelle scuole nipponiche. Non bisogna poi dimenticare che la società giapponese è estremamente competitiva e altrettanto può dirsi del sistema scolastico. Per frequentare il liceo è necessario superare un esame che crea molta ansia e competizione tra gli studenti, e anche l'accesso universitario è molto selettivo: in media solo la metà dei diplomati riesce a passare l'esame d'ammissione e ciò comporta un ulteriore carico di stress. Per tale motivo, fin da giovanissimi, gli studenti prendono parte a lezioni pomeridiane integrative e non è raro vederli uscire da scuola anche alle dieci di sera. Il tema dei suicidi tra gli studenti, è un problema poco analizzato e, persino negato, come denunciato dalla giornalista Miriam Tagini in un suo articolo su Linkiesta risalente al 2017.

Negli Stati Uniti, del suicidio, pur essendo la seconda causa di morte tra gli studenti universitari, si preferisce non parlare, tanto che la giornalista dovette far riferimento a statistiche risalenti al 2010. Eppure, già 5 anni fa, il tasso di suicidi era pari al 7,5 ogni 100 mila studenti, con il 92% dei laureati che aveva pensato al suicidio ed il 90% degli universitari che avevano elaborato un piano suicidario. Anche in questo caso si puntava il dito contro «le aspettative della società, l'altissimo livello di competizione all'interno degli atenei e le pretese della famiglia» che, in considerazione degli elevati costi legati al percorso universitario, tendono a generare troppa pressione. E' necessario ricordare, a tal proposito, che già nel 2012, Harvard era in vetta alla classifica degli atenei statunitensi per il numero di studenti che si era tolto la vita, sia fuori che dentro la struttura universitaria. Una media di 24,4 ogni 100 mila studenti. Primato condiviso in parte con la Columbia University, facente parte essa stessa dell'Ivy League, ossia le otto Università più prestigiose del Paese.

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L'importanza d'imparare anche a fallire

Anche in questo caso, la causa principale, per spiegare questo triste fenomeno, è il senso di fallimento che può ingenerarsi in uno studente sottoposto ad un enorme carico di stress, sia sociale che scolastico. A peggiorare le cose vi è l'atteggiamento, molto diffuso specialmente in ambienti così esclusivi ed elitari, di celare e mettere a tacere ogni accenno di debolezza, nella paura che ciò possa compromettere l'immagine di perfezione che circonda tali atenei. È sempre più necessario, riscoprire quella che Matteo Lancini, docente di Psicologia dello sviluppo e dell'educazione all'Università Bicocca, e presidente della Fondazione Minotuaro, in una intervista al Giornale, ha definito l'educazione al fallimento. «Il fallimento è tutto - ha detto Lancini- significa educare al fatto che la vita è fatta da inciampi, fallimenti. Significa smettere di dire che non si deve star male, di rimuovere la morte, la sofferenza». Significa definirsi umani e non sentirsi falliti, tanto meno a vent'anni.

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