Era il 27 maggio 1993. Trent'anni fa Cosa nostra firmava, in via dei Georgofili, la sua prima strage fuori dalla Sicilia: i morti furono 5.
Quella nella notte del 27 maggio 1993, trent'anni fa esatti, a Firenze, è stata la prima strage firmata da Cosa nostra fuori dalla Sicilia. Non la prima bomba; quella esplose tredici giorni prima in via Fauro, a Roma. Volevano, usando un'espressione di quel mondo, far "fare la fine del tonno" anche a Maurizio Costanzo, spentosi pochi mesi fa all'età di 84 anni. Trenta in più di quelli scritti sulla sentenza emessa dal "tribunale" dei Corleonesi. Quella sera non ci furono morti. Non fu così invece in Toscana, dove il tritolo che sventrò la Torre dei Pulci, in via dei Georgofili, di vite ne reclamò cinque.
Una famiglia intera - i coniugi Fabrizio Nencioni e Angela Fiume, le loro bambine Nadia, 9 anni, e la piccolissima Caterina, nata solo 50 giorni prima - e un giovane studente, Dario Capolicchio, che di anni ne aveva 22. Per loro il tempo si è fermato quella notte, con le lancette che segnavano l'una e quattro minuti. Ma l'esplosione non "cercava" loro. Né nessun altro di quella, quasi, cinquantina di persone rimaste ferite. Il volto da sfregiare (e che fu sfregiato) era quello della Galleria degli Uffizi. Il patrimonio artistico, quello insostituibile, bersaglio della coda di attentati che sarebbe proseguita, due mesi dopo (tra il 27 e il 28 luglio), con la bomba in via Palestro a Milano e le due, esplose a distanza di cinque minuti a Roma, nella Basilica di San Giovanni in Laterano e nella chiesa di San Giorgio in Velabro. Cosa nostra alzava la posta, pronunciando il suo ennesimo ricatto.
L'attentato
Anche ai Georgofili il modus operandi fu quello dell'autobomba. Come a Ciaculli. Come in via Pipitone. Come in via D'Amelio. Un Fiat Fiorino rubato poche ore prima, imbottito con oltre 270 chilogrammi di tritolo e parcheggiato a due passi dagli Uffizi. Di quel boato ne porteranno le cicatrici anche Palazzo Vecchio e il Corridoio Vasariano.
Il progetto stragista, la sentenza, l'innesco
La cornice di quel momento storico è ben nota, ma se si allinea qualche data la messa a fuoco migliora. Si parte nell'autunno 1991, momento in cui il progetto stragista prende forma - in merito, l'ex procuratore generale di Palermo, Roberto Scarpinato, parlerà di un "software" suggerito dall'esterno e di un "hardware" prestato da Cosa nostra. Il 30 gennaio del 1992 fu il giorno della sentenza della Corte di Cassazione che confermava le condanne decise nel Maxi-processo di Palermo. Poi gli omicidi eccellenti: Salvo Lima il 12 marzo; Giovanni Falcone il 23 maggio; Paolo Borsellino il 19 luglio. Il 7 agosto di quell'anno il "decreto Falcone" fu convertito in legge. Poi il preludio delle bombe "sul continente", nell'autunno 1992, con l'ordigno rinvenuto nel Giardino di Boboli, a Palazzo Pitti a Firenze. Quindi l'arresto di Salvatore Riina, il capo dei capi, il 15 gennaio del 1993. E così si arriva alla primavera di quell'anno e al summit, in un villino a Santa Flavia, in cui viene deliberato il prosieguo delle stragi. Chi suggerì l'offensiva contro i beni simbolo della cultura d'Italia? È una di quelle domande che attendono di essere scalfite.
Del direttivo mafioso che mise in moto quella stagione di guerra frontale contro lo Stato non è rimasto libero nessuno. Tutti i pezzi grossi sono ormai morti, "pentiti" o chiusi in una cella. L'ultimo a finirci dentro, dopo una latitanza quasi trentennale, è stato Matteo Messina Denaro; considerato il depositario di tutto il mai detto di quel biennio (e non solo). L'ultimo "coperchio" sopra i buchi neri al cui interno solo lui e pochissimi altri hanno potuto scrutare. Un coperchio saldo. Ermetico. La ratifica del voto è in quel «non mi pento» sussurrato, attraverso il vetro blindato, alle sorelle che gli fanno visita per la prima volta dopo l'arresto - avvenuto a Palermo il 16 gennaio scorso - nel carcere dell'Aquila.
Perché le stragi si fermano?
Proprio il padrino di Castelvetrano, unitamente ai fratelli Giuseppe e Filippo Graviano, ha avuto un ruolo di primo ordine in tutta la fase esecutiva delle stragi del periodo '93-'94. Sì, perché non va scordato il fallito attentato che si sarebbe dovuto consumare il 23 gennaio di quell'ultimo anno all'esterno dello Stadio Olimpico di Roma. Un'altra autobomba, una Lancia Thema, imbottita di esplosivo e di tondini di ferro. L'obiettivo? Il presidio dei Carabinieri che avrebbero svolto il servizio d'ordine durante la partita tra Roma e Udinese. Solo un guasto al telecomando si mise di traverso tra quella volontà eversiva e decine, se non centinaia, di vittime.
«Quell'attentato avrebbe cambiato la storia del nostro Paese» e lo «avrebbe messo definitivamente in ginocchio», ha affermato il magistrato Nino Di Matteo ricordando il contenuto della sentenza sulla trattativa Stato-mafia. «E allora bisogna approfondire un dato: perché l'attentato non viene ripetuto?». Che è poi un altro modo per porre l'altra grande domanda senza risposta di quella stagione: perché le stragi, all'improvviso, si fermarono?
Una nuova strategia della tensione
Ma andiamo avanti e torniamo ai nomi e alle responsabilità. Ai fratelli Graviano - che, in una coincidenza temporale quantomai singolare, saranno arrestati in un ristorante a Milano solo quattro giorni dopo, il 27 gennaio 1994 - e al loro "gemello diverso". La "Super Cosa" voluta da Riina.
Sono quei vertici mafiosi - citando dal saggio "Stragisti" di Lirio Abbate - che «sono giunti ad attuare attacchi terroristici eversivi al cuore dello Stato, realizzando otto stragi [...] con la prospettiva di ricattare esponenti delle istituzioni al fine di abolire l'ergastolo, eliminare il 41 bis e la legge sui collaboratori di giustizia». E così facendo «hanno condizionato la politica e la funzione legislativa del Parlamento e del Governo, arrivando persino a influenzare, con la strage di Capaci, la nomina del presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro» (che fu eletto, lo ricordiamo, due giorni dopo l'attentato in cui fu ucciso il giudice Giovanni Falcone). Al punto che si tornò a parlare, di nuovo, di una strategia della tensione in Italia. Il Belpaese attraversava quello che, nella storia recente, è stato il suo momento più fragile; arrivando a temere lo scenario di un possibile golpe.
Un timore concreto, come avrebbe ricordato anni dopo Carlo Azeglio Ciampi, al tempo presidente emerito della Repubblica, che in quel difficile 1993 si trovava invece a capo del Governo. L'ultimo della cosiddetta Prima Repubblica.
Quell'ipotesi - maturata la notte in cui il fragore delle bombe risuonò a Milano e Roma - Ciampi la condivise, dalle colonne di Repubblica, in un colloquio con Massimo Giannini. «Ricordo come fosse adesso quel 27 luglio, avevo appena terminato una giornata durissima che si era conclusa positivamente con lo sblocco della vertenza degli autotrasportatori. Ero tutto contento, e me ne andavo a Santa Severa per qualche ora di riposo. Arrivai a tarda sera, e a mezzanotte mi informarono della bomba a Milano. Chiamai subito Palazzo Chigi, per parlare con Andrea Manzella che era il mio segretario generale. Mentre parlavamo al telefono, udimmo un boato fortissimo, in diretta: era l'esplosione della bomba di San Giorgio al Velabro. Andrea mi disse "Carlo, non capisco cosa sta succedendo...", ma non fece in tempo a finire, perché cadde la linea. Io richiamai subito, ma non ci fu verso: le comunicazioni erano misteriosamente interrotte. Non esito a dirlo, oggi: ebbi paura che fossimo a un passo da un colpo di Stato. Lo pensai allora, e mi creda, lo penso ancora oggi...».
Ma per mano di quale regia? «Non so dare risposte», disse Ciampi. «Il golpe non ci fu, grazie a Dio. Ma certo, su quella notte, sui giorni che la precedettero e la seguirono, resta un velo di mistero che è giunto il momento di squarciare, una volta per tutte». Parole, quelle del decimo presidente della Repubblica, che furono pronunciate nel 2010. Quel velo è invece ancora lì.