Gli abiti “usa e getta” dell'Occidente ricco finiscono in discariche nei Paesi più poveri. Il caso di Atacama è solo la punta dell'iceberg.
Il deserto di Acatama, che si estende dal Perù meridionale al Cile settentrionale, è uno dei più antichi e aridi deserti sulla Terra. La limpidità del suo cielo, per la costante mancanza di precipitazioni, permette di poter vedere al meglio le costellazioni celesti, e ospita il più grande radiotelescopio del mondo, mentre il suo terreno arido, così simile al suolo lunare, permette lo svolgersi degli esperimenti sui veicoli spaziali. L'ecoregione ospita tre aree naturali protette e, ogni cinque anni circa, dà vita al fenomeno del 'deserto florido', che consiste nella fioritura in contemporanea di molteplici specie di piante dai colori diversi.
Una discarica a cielo aperto
Anche questo tesoro naturale però non è riuscito a sfuggire all'inquinamento prodotto dall'uomo che ha trasformato questa zona in una discarica a cielo aperto di abiti usati. I colori delle fioriture, o delle dune arse dal sole, sono state soppiantate dai colori sbiaditi di abiti che nessuno vuole, in una continua corsa al possedere e allo sprecare sempre di più. Questa enorme discarica illegale di abiti usati si trova alla periferia di Alto Hospicio, una città di 130 mila abitanti, che si trova nell'estremità occidentale del deserto di Atacama.
Il fenomeno non è nuovo, visto che da decenni il Cile è uno dei principali paesi al mondo che importano abiti di seconda mano ma, di sicuro, il problema è andato a peggiorare, con il diffondersi a livello globale della cosiddetta 'fast fashion', ossia capi di vestiario e accessori molto economici e di scarsa qualità che inducono le persone a comprare sempre più abiti per poi dismetterli perché rovinati o semplicemente passati di moda. Tutto avviene molto rapidamente, così come impone la società globalizzata: ogni nuova tendenza viene cavalcata dai marchi di fast fashion che inducono le persone a comprare nuovi abiti, destinati a venir messi da parte al comparire, molto rapido anch'esso, di una nuova moda.
Molti abiti che vengono buttati nelle discariche, poi, non sono mai stati neanche messi ma sono rimasti invenduti nei negozi o restituiti appena acquistati. Si stima che ogni anno, in Cile, vengano importate quasi sessanta mila tonnellate di vestiti, prodotti in Cina o in Bangladesh, principalmente attraverso il porto di Iquique, situato a pochi chilometri dalla discarica, che dal 1975 è stato dichiarato una zona franca priva, quindi, di dazi e imposte doganali.
Rivenduto o buttato e bruciato
Delle tonnellate di abiti importanti, molti vengono venduti in altri Paesi dell'America Latina, o finiscono in immensi mercati come quello di Quebradrilla, dotato di oltre sette mila banchi, mentre circa quaranta mila tonnellate finisce nella discarica che, seppure sia illegale, è conosciuta da tutti anche a causa dei fumi tossici che si propagano nella città di Alto Hospicio quando i vestiti vengono bruciati per venire smaltiti.
La maggior parte di questi capi di abbigliamento sono fatti di materiali sintetici, che si degradano molto più lentamente rispetto alle fibbre naturali come il cotone e il lino, impiegandoci anche duecento anni. Nel deserto di Atacama vi sono almeno quarantacinque punti di scarico clandestini degli abiti usati per un totale, tra la discarica di Iquique e quello di Alto Hospicio, di circa cinquecento mila tonnellate di vestiti.
Sono cifre che rischiano di insidiare il primato a un'altra immensa discarica della moda, quella di Accra, in Ghana. Come dichiarato da Moyra Rojas, segretaria regionale del ministero dell'Ambiente cileno, in un articolo pubblicato dal Post, “non c'è alcun dubbio sui danni e sull'impatto ambientale che questi cumuli di rifiuti, specialmente i rifiuti tessili, hanno per le comunità in cui si trovano”. Il Cile, infatti, pur avendo approvato la normativa sulla 'responsabilità estesa del produttore', pensata per coinvolgere costoro anche nel ciclo di smaltimento dei propri prodotti, non l'ha estesa ai prodotti tessili. L'inquinamento dovuto a tale comparto, come visto, è un gravissimo problema che va a sommarsi con le altre drammatiche emergenze ambientali a livello globale.
Inquinanti chimici, fra le fibre
Nel 2020 l'Onu aveva lanciato un significativo allarme sul fatto che la produzione di abiti fosse più che raddoppiata dal 2000 al 2014. L'impatto ambientale di un tale fenomeno è devastante: l'industria tessile impiega almeno il 20% delle sostanze chimiche del globo e consuma enormi quantità di acqua, aumentando la produzione delle acque reflue ed il rilascio di microplastiche nell'ambiente. Il 18% circa delle emissioni globali di anidride carbonica sono prodotte dall'industria manifatturiera mentre il 25% di tutti gli insetticidi del mondo, ed il 10% dei pesticidi, vengono utilizzati per la produzione del cotone per la produzione dei jeans.
Sono cifre che devono indurre a una attenta riflessione sulla necessità di arginare questo mercato, ampiamente criticato anche per lo sfruttamento a cui costringe i propri lavoratori. Il fenomeno della 'fast fashion', termine usato per la prima volta dal New York Times nel 1989 in occasione dell'apertura nella Grande Mela di uno store di Zara, ha imposto ritmi di produzione sempre più incalzanti, andando a superare il concetto di stagione e mettendo in produzione delle piccole collezioni che rinnovano costantemente quanto offerto nelle grandi catene di abbigliamento. Lo shopping online, e la possibilità di poter effettuare dei resi gratuiti, hanno trasformato il concetto di acquisto in una attività rapida, che non necessita di particolari riflessioni.
Il problema dei resi
Nelle discariche illegali di abbigliamento, infatti, non vengono buttati solo abiti usati o danneggiati ma anche l'invenduto della stagione che viene smaltito per far posto, come detto, alle nuove collezioni. Si stima che solo l'1% dei capi d'abbigliamento venga riciclato mentre il resto finisce negli inceneritori, o buttato nelle sempre più numerose discariche illegali.
Questo dato è indubbiamente in contrasto con quanto pubblicizzato dai marchi produttori della moda 'usa e getta' che fanno un gran parlare di riciclo e sostenibilità dei propri prodotti. Secondo uno studio dell'Università di Lund, in Svezia, pubblicato sulla rivista scientifica Sustainable Production and Consumption e reperibile sul sito dell'università svedese, “per le aziende di e-commerce è più economico buttare via gli articoli restituiti piuttosto che venderli di nuovo”.
Lo shopping digitale genera molti più resi rispetto agli acquisti condotti in negozio, e ciò vale per i prodotti tessili ma anche per quelli tecnologici. Come dichiarato da Carl Dalhammar, docente senior presso l'Istituto internazionale per l'economia ambientale e industriale dell'Università di Lund, «la cruda realtà è che buttare via le cose è il minore dei due mali per l'azienda dal punto di vista finanziario e ciò vale per i beni che sono economici rispetto al costo di esaminarli, riconfezionarli e rimetterli in vendita».
Secondo Dalhammar, e i colleghi con cui ha condotto lo studio, non sarebbe una valida soluzione neanche quella di introdurre un divieto di buttare via i resi, come fatto in Francia. Il problema è che i negozi di seconda mano non possono, e a volte non vogliono, sobbarcarsi una quantità enorme di vestiti che non saprebbero, a loro volta, come smaltire. Potrebbe essere una misura efficace, invece, quelle di istituire una tassa sui resi che, essendo nella maggior parte dei casi gratuiti, genera un circolo vizioso di abiti acquistati per poi essere restituiti una volta che hanno esaurito la propria brevissima funzione.
Secondo quanto è possibile leggere nello studio dei ricercatori svedesi, «le aziende recuperano rapidamente i costi aggiuntivi per i resi, comprese le spese di spedizione gratuite, poiché in totale i clienti che effettuano resi generano ancora più profitti per l'e-commerce rispetto a quelli che non inviano resi». Questo stato di cose, basti pensare alle emissioni di gas serra prodotte dai camion che trasportano le merci, non fa che incrementare ulteriormente l' inquinamento ambientale e causare danni al già precario equilibrio ambientale del nostro tempo. La soluzione, forse l'unica, è quella di arginare il fenomeno della fast fashion che si basa sullo sfruttamento della manodopera dei Paesi poveri e delle risorse fossili.