La mediazione nella crisi Wagner ha cambiato i rapporti di forza tra Alexander Lukashenko e Mosca? Ne parliamo con l'analista Pietro Figuera
Dalla mediazione decisa che ha disinnescato la "crisi" griffata Wagner in Russia, alla fine dello scorso mese di giugno, alla richiesta alla Corte Penale Internazionale - siglata dalla Commissione degli affari esteri del Parlamento europeo agli inizi della settimana - di un mandato di arresto con il suo nome sopra. Sono le parentesi del momento che sta vivendo il presidente bielorusso Alexander Lukashenko e che abbiamo analizzato con Pietro Figuera, analista geopolitico e fondatore del progetto Osservatorio Russia.
La risoluzione del “caso Wagner” ha portato una ventata di ottimismo alla Bielorussia e al suo presidente. Se da un lato Lukashenko è stato scattante, dimostrandosi ancora utile a Mosca, dall’altro c’è chi fa notare che si è preso in casa anche una potenziale fonte di problemi. È davvero così?
«È senz’altro vero che la mediazione di Lukashenko, che formalmente ha posto la parola fine alla ribellione del Gruppo Wagner, ha accresciuto il peso del leader bielorusso. Mai si era vista, negli ultimi secoli di storia, una mediazione esterna – e di successo – che intervenisse tra due fazioni in lotta per il potere in Russia. Ed è evidente che al declino dell’immagine di Putin come "uomo forte" corrisponde simmetricamente un’ascesa in tal senso del suo omologo di Minsk. Non solo, ma aiutando il presidente russo a risolvere la spinosa questione di Prigozhin, Lukashenko ha saldato una discreta parte dei debiti accumulati nel 2020 – ovvero il sostegno a sua volta ricevuto da Mosca per restare in sella. E ha riequilibrato in parte l’alleanza, spesso qui derubricata a semplice vassallaggio. Non è mai stato realmente così, e ancor meno lo sarà in futuro. Nel caso di un ulteriore approfondimento dei rapporti – ovvero della concretizzazione della famigerata Unione tra Russia e Bielorussia – Minsk avrebbe qualche carta in più da giocare. Quanto ai rischi interni, francamente non credo che Prigozhin sia così sciocco da creare problemi a chi si è adoperato per salvarne la pelle, o quantomeno la faccia. Al di là dei rapporti non concordi sull’effettivo dislocamento di Wagner in Bielorussia, non vedo cosa Prigozhin possa fare contro Lukashenko, e soprattutto perché. Ricordo che Minsk è sempre stata molto attenta alla questione delle ingerenze, e che nel 2020 – poche settimane prima dei disordini che hanno costretto Lukashenko a fare precipitosamente marcia indietro, nei confronti di Mosca – le autorità bielorusse non si erano fatte scrupolo nell’arrestare 33 presunti mercenari dello stesso Gruppo Wagner, accusati di voler interferire nelle imminenti elezioni. L’attenzione resta alta anche oggi, anzi a maggior ragione».
Ora quali "mosse" possiamo aspettarci da parte di Lukashenko? Cercherà di capitalizzare il momento?
«Credo che in linea di principio Lukashenko preferisca tenersi stretto il suo ruolo da “paciere”, piuttosto che tentare improbabili svolte in Ucraina o altrove. E mi riferisco non solo alla mediazione tra Putin e Prigozhin, ma pure a quella tra russi e ucraini tentata l’anno scorso, nelle prime settimane del conflitto. Anche se quest’ultima è definitivamente fallita, Lukashenko non ha rinunciato ad assumere una postura propria, relativamente moderata, vagamente super partes. Il problema è che gli altri non lo percepiscono come tale, almeno al di fuori della Russia. In Occidente Minsk è oggetto di sanzioni non dissimili da quelle imposte a Mosca, in Ucraina ha dilapidato un piccolo patrimonio di influenza e persino simpatia che s’era guadagnata durante e dopo la crisi del 2014. L’ambiguità politica non ha pagato, ma si è rivelata come un boomerang anche per i mai troppo celati appoggi logistici all’invasione russa. In considerazione di questo, e anche degli ultimi sviluppi – la richiesta di un suo arresto da parte della commissione Esteri del Parlamento europeo, che rompe definitivamente ogni possibile trattativa con il regime – la politica di Lukashenko potrebbe cambiare, e addirittura riservare qualche colpo di scena. Del resto, non sarebbe una novità: il leader bielorusso ha da sempre oscillato tra Mosca e l’Occidente, a seconda delle circostanze, e adesso si trova in una strada abbastanza obbligata. Che sia anche un vicolo cieco è possibile, ma non ci è dato saperlo. Quanto ai rapporti con la Russia, invece, è probabile che Lukashenko non si accontenterà della comparsata del 24 giugno ma cercherà di capitalizzare la sua accresciuta influenza. Lo farà con estrema prudenza, è chiaro, sa bene che Putin (al pari suo) è particolarmente sensibile alle ingerenze. Ma potrebbe informalmente accostarsi ai consiglieri del presidente russo, senza ovviamente averne alcun titolo formale. Una posizione invidiabile, data la stazza e i problemi della Bielorussia. Molto più che un vassallaggio».
E come cambia ora il ruolo (e il peso) di Minsk nel conflitto tra Russia e Ucraina?
«Il ruolo di Minsk nel conflitto in Ucraina continuerà a dipendere dalle scelte strategiche della sua leadership. Finché si limiterà a un appoggio logistico e vagamente politico alle ambizioni di Putin, la Bielorussia non potrà pretendere molto dall’una né tantomeno dall’altra parte. La mediazione, come dicevamo, è ormai impossibile. L’intervento diretto a sostegno di Mosca è improbabile, e principalmente per una ragione: Lukashenko non può chiedere ai suoi di morire per una causa altrui, quindi nemmeno così patriottica. Non può farlo con una situazione interna così delicata, e probabilmente l’avrà messo da subito in chiaro con Putin. Più facile, questo sì, che Minsk faccia da ponte per uomini della Wagner, se non veri e propri regolari dell’esercito russo, per ulteriori azioni. Se Lukashenko continua a essere messo all’angolo in Europa, come possiamo riscontrare dalle notizie delle ultime ore, la sua integrazione politico-militare con la Russia prenderà un’ulteriore accelerazione, con tutte le conseguenze del caso. A rigor di analisi, dobbiamo prendere poi in considerazione due ulteriori scenari, per quanto difficili: quello di una vittoria – o quantomeno di un’avanzata – netta da parte di Kiev, e quello speculare di un simile successo di Mosca. Nel primo caso, Lukashenko entrerebbe probabilmente in crisi, sia per il ridotto sostegno di Mosca che per la ripresa del dissenso interno organizzato. Nel secondo, potrebbe essere tentato dall’idea di "gettare qualche centinaio di morti sul tavolo della pace", per usare una citazione che tutti conosciamo. È un po' il destino di tutti gli junior partners, adattarsi alle circostanze e sperare di aver fiutato bene il vento».
Soffermandoci invece per un attimo sulla brigata Wagner, il fatto che una parte della compagnia sia in Bielorussia pone tensioni e rischi (potenziali) accentuati per l’Europa?
«Di questi rischi si è molto parlato, soprattutto nei giorni immediatamente successivi al riparo della Wagner in Bielorussia. Richard Dannatt, ex capo dello Stato maggiore britannico, è stato il primo a paventare l’ipotesi di un attacco di Prigozhin e soci all’Ucraina da nord, ovvero dal confine bielorusso. Gli allarmi sono poi scemati, anche per le notizie contraddittorie sull’effettiva presenza della Wagner nel Paese alleato di Mosca. Ma a distanza di un mese, un certo livello di guardia è rimasto. Non solo in Ucraina, dove il diversivo della Wagner non sarebbe più tale ormai – a Kiev assicurano di aver preso contromisure sul confine settentrionale, ovvero di non farsi cogliere (quasi) impreparati come il 24 febbraio 2022. In questi giorni a far discutere è la vulnerabilità del Corridoio di Suwałki, già noto agli strateghi occidentali come uno dei punti deboli dello schieramento NATO. Si tratta del confine tra Polonia e Lituania, minacciato dalla possibile convergenza terrestre tra l'exclave russa di Kaliningrad, isolata sul Baltico, e la Bielorussia. Chi lo controlla, ha in mano l’unico collegamento di terra tra i Paesi Baltici e il resto dell’UE – o meglio della NATO».
E quindi...
«Andrej Kartapolov, presidente della commissione Difesa della Duma, ha apertamente ventilato la possibilità di conquista di questa cruciale fascia di terra, anche se – al solito – soltanto come reazione a un’escalation innescata da altri: “Se dovesse succedere qualcosa”, ipse dixit. La punta di lancia di questa operazione sarebbe proprio il Gruppo Wagner, che dalle sue basi in Bielorussia avrebbe in teoria mano libera per condurla. Un rischio plausibile? Innanzitutto bisogna vedere quanto gli attori in gioco siano disposti a un confronto nucleare. Non dimentichiamo che la Bielorussia è sede di testate atomiche russe, e che più in generale un attacco a due membri della NATO come Polonia e Lituania porterebbe senza difficoltà all’immediata invocazione dell’articolo 5 dell’Alleanza Atlantica. Da lì a una guerra generalizzata non dovrebbero esserci più ostacoli, ed è improbabile che a Mosca – né tantomeno a Washington – si punti a questo. Certo, resta il rischio elevato di incidenti, tanto più alto di fronte alle continue e reciproche provocazioni: persino il vertice NATO di Vilnius, a pochi chilometri dai suddetti confini, è stato visto come tale da Mosca, nonostante durante il summit sia stata praticamente esclusa la possibilità di un’adesione imminente dell’Ucraina alla stessa Alleanza Atlantica».
E arriviamo così agli ultimi giorni. Come detto, la Commissione affari esteri dell'Eurocamera ha fatto richiesta per un mandato di cattura rivolto a Lukashenko. Si può leggere una causalità tra la mediazione con Prigozhin e questa richiesta o la questione va oltre?
«Per una volta non vedo un nesso diretto tra il ruolo giocato da Lukashenko nello scontro tra Prigozhin e il Cremlino – o più in generale il suo peso crescente negli affari russi – e il voto della Commissione Esteri del Parlamento Europeo. Credo, più semplicemente, che siamo su un piano inclinato da cui è ben difficile fare retromarcia. È vero, l’Unione Europea ha avuto oltre 500 giorni per deliberare in tal senso. Ma a parte il fatto che tale richiesta arriva necessariamente dopo il mandato d’arresto spiccato dalla Corte Penale Internazionale per Putin – anche per ovvia gerarchia delle responsabilità nel conflitto – mi pare una logica conseguenza del generale inasprimento dei rapporti con Minsk. Perché una cosa deve essere chiara: il voto è senz’altro politico, e se si appella alla giurisdizione della CPI è solo nel tentativo di ammantare di imparzialità e legalità un’accusa che altrimenti potrebbe essere rivolta anche a molti altri leader del pianeta. Non mi pare che il Parlamento Europeo – o qualsiasi altro parlamento nazionale del nostro continente – si sia mosso nello stesso modo a fronte di situazioni analoghe che si sono verificate in tutto il mondo negli ultimi decenni, specie quelle di responsabilità dei nostri alleati. Ciò non attenua né sposta di un millimetro le colpe del presente conflitto, ma deve invitarci a riflettere sulla strumentalità del ricorso a certi organismi che continua a seguire logiche geopolitiche – e senza alcuna ammissione di sorta. Anzi, a dirla tutta i peggiori crimini commessi dal regime di Lukashenko sono anteriori alla guerra d’Ucraina e molto più diretti del suo tiepido appoggio a Putin: riguardano infatti i metodi usati per la repressione interna, avvenuti però (in buona parte) in una fase in cui l’Occidente (e soprattutto gli Stati Uniti) cercava di non sbarrare tutte le vie di comunicazione con Minsk. Oggi, al di là dello specifico caso Wagner, la Bielorussia è vista come una minaccia crescente e ogni sua specificità rispetto alla Russia viene generalmente ignorata. Le non rare increspature con Putin, la sua esigenza di mantenere un equilibrio regionale – anche ai fini di preservazione del regime, è chiaro – e i tentativi di imbastire una politica estera autonoma non sono mai stati presi seriamente in considerazione da chi avrebbe dovuto farlo, e adesso meno che mai. Liquidando Minsk come un’appendice di Mosca, si è solo accelerato il processo di integrazione tra i due Paesi che in una certa fase – non certo lontana, parliamo dell’alba del 2020 – è stato tutt’altro che scontato. Un vero e proprio cortocircuito, o una profezia che si autoavvera. Mi ricorda il trattamento riservato da noi occidentali agli oligarchi russi: li sanzioniamo, sequestrando i loro beni, e al tempo stesso però pretendiamo che si ribellino a Putin. Succede piuttosto il contrario: per quanto scontenti del loro presidente, per ovvie ragioni, preferiscono spesso non voltargli le spalle per non rischiare di rimanere soli, schiacciati tra incudine e martello. Con le debite differenze, non mi sembra un fenomeno così distante da ciò a cui stiamo assistendo con la Bielorussia di Lukashenko».