60 anni fa il disastro nella piccola valle al confine tra Veneto e Friuli-Venezia Giulia, con le sue quasi 2000 vittime
Esattamente 60 anni fa, il 9 ottobre 1963, in una piccola valle al confine tra il Veneto e il Friuli-Venezia Giulia si consumò una delle peggiori tragedie della storia europea del secondo dopoguerra: il disastro del Vajont.
La vicenda
Alle 22.39 una frana del volume di circa 270 milioni di metri cubi si staccò dalle pendici del Monte Toc e sollevò dal sottostante bacino artificiale, formato dopo la recente creazione della diga del Vajont, un’onda gigantesca, che superò in altezza di circa 250 metri la parte superiore del manufatto. Un mostro d’acqua che si frazionò, travolgendo da una parte i villaggi di Erto e Casso. Solo una frazione di questa immane massa liquida, calcolata in circa una trentina di milioni di metri cubi superò lo sbarramento di calcestruzzo, precipitò nella stretta valle scavata dal torrente Vajont e devastò la sottostante cittadina di Longarone - che fu completamente rasa al suolo, così come alcune frazioni e parte dei comuni vicini.
Spaventoso il bilancio delle vittime: 1910, la stragrande maggioranza delle quali (1450) nella sola Longarone. Un massacro che sarebbe stato ancora peggiore se la diga fosse crollata. Ma non fu così: nonostante la pressione gigantesca, resistette all’urto e oggi è ancora lì, incastonata nella valle a strapiombo. Impressionante ma bellissima. «Bianca. Sembra il genoa di una barca a vela che abbia preso vento e sia rimasto congelato lì, nel gesto atletico, in mezzo alla roccia, nella montagna. Non sembra vera, sembra finta. Uno di quei segni che faceva l’arte italiana in quegli anni. Astratta, informale... Un cretto di Alberto Burri, un taglio di Lucio Fontana sulla tela», come la celebra Marco Paolini nel suo “Il racconto del Vajont”, scritto insieme a Gabriele Vacis.
Non una vendetta, «un disastro evitabile»
«Un sasso è caduto in un bicchiere colmo d’acqua e l’acqua è traboccata sulla tovaglia. Tutto qui. Solo che il bicchiere era alto centinaia di metri e il sasso era grande come una montagna e di sotto, sulla tovaglia, stavano migliaia di creature umane che non potevano difendersi. Non è che si sia rotto il bicchiere, quindi non si può dare della bestia a chi l’ha costruito. Il bicchiere era fatto a regola d’arte, testimoniava della tenacia, del talento e del coraggio umani» scrisse l’11 ottobre 1963 Dino Buzzati, grande giornalista e grandissimo scrittore, sul Corriere della Sera. Un pezzo di bravura, poetico e struggente, che si conclude affermando che «ancora una volta la fantasia della natura è stata più grande ed astuta che la fantasia della scienza».
Una vendetta della montagna sfidata e apparentemente sconfitta? In realtà la verità era purtroppo più prosaica. La tragedia del Vajont, innescata dall’innalzamento scriteriato del livello del lago per il collaudo definitivo del bacino, non fu che l’atto conclusivo di una vicenda che si caratterizzò con la sottovalutazione del pericolo di un’antica frana presente su quelle che diventarono le rive del lago artificiale. Una triste vicenda fatta di espropri, proteste, connivenze, errori e interessi economici che furono considerati più importanti della tutela dei cittadini. I vari processi, tra condanne e ribaltamenti delle sentenze, si conclusero addirittura nel 2000, 37 anni dopo. «Un disastro evitabile», lo definirono le Nazioni Unite durante l’Anno internazionale della Terra, nel 2008.
Dove il tempo si è fermato
Un dramma che, come abbiamo visto, ha i suoi “cantori”. Il potentissimo monologo teatrale di Marco Paolini, capolavoro del teatro civile impegnato, che si basa sulle denunce assidue e costanti di una giornalista locale dell’Unità, Tina Merlin, che per anni denunciò inascoltata i gravi rischi che si stavano correndo. Ad aggiungere altro dolore al dramma di intere comunità ci furono le difficoltà enormi per i sopravvissuti. Specialmente quelli di Erto, che furono strappati alle proprie case e delocalizzati in comuni appositamente creati a cui furono dati i nomi di Vajont e Nuova Erto. Oggi il villaggio sorge più in alto rispetto a quello devastato dalla furia dell’acqua e tra i suoi abitanti figura il celebre scultore e scrittore Mauro Corona, che ha qui il suo atelier. Ma facendo un giro tra le strade di Erto, Casso e percorrendo il perimetro del lago, come mi è capitato di fare due volte negli scorsi anni, si ha la sensazione di una sospensione del tempo, come se nella valle gravitasse ancora il fantasma di quella disgrazia troppo immane per poter essere cancellata.
Una M incisa nella montagna
Dal villaggio di Casso, arroccato sulle pendici del monte opposto al Toc, si può guardare per così dire “negli occhi” la cicatrice della frana, con la sua inconfondibile forma a M. Qualche chilometro più in là, tra le vie del borgo vecchio di Erto, non mancano le abitazioni abbandonate o in rovina, testimoni di un futuro che non è mai riuscito a farsi largo. «Erto vecchia è il limite del mondo di ieri. Qui il tempo si è fermato, tutto è più vecchio di quarant'anni» ha scritto un altro grande giornalista, Paolo Rumiz, nel suo “La leggenda dei monti naviganti”.
«Miracolata dall'onda che passò poco più a est, oggi è intatta e deserta, un monumento alla montagna che fu. La abitano gli ultimi mohicani, quelli che rifiutano il cemento del paese nuovo, con la sua illuminazione da stadio, lo stradone d'asfalto, la chiesa che sembra un'astronave. I silenzi, quello che inquieta sono i silenzi. Niente più richiami, passi sul selciato, acciottolio di stoviglie dalle finestre, scoppiettare di camini, piallare dal falegname. Solo i passi nel nulla, il tic tac del tempo che porta all'inverno. Con in fondo l'oscura certezza che non sia stata la frana del Vajont a spazzar via questo mondo, ma altro. La catastrofe come alibi, fuga dalla responsabilità collettiva di un abbandono».
Lo scollamento tra scienziati e politica
Il Vajont come monito per chi progetta e costruisce le grandi opere, ma soprattutto per la politica. Questo è lo scopo di una serie di eventi organizzati in queste settimane dal Consiglio nazionale italiano dei geologi, dal suo Centro Studi, dagli Ordini regionali di Friuli-Venezia Giulia e Veneto e dai Comuni di Erto-Casso e Longarone, insieme alla Fondazione Vajont. Sostenibilità tecnica, ambientale ed economica (ma anche sociale) degli interventi finalizzati alla realizzazione delle infrastrutture, da considerare nella loro totalità tenendo conto di ogni possibile criticità. Un modo per trarre insegnamento dagli errori del passato, che al Vajont furono gravissimi.
Ma, come sottolinea Rainews, «in sala molti tecnici accademici, ma pochi amministratori». A riprova di quello che, forse, è «uno scollamento non del tutto ricomposto fra gli scienziati della terra e i decisori». Un segnale inquietante per un Paese come l’Italia che si appresta, se l’attuale governo non cambierà idea, a fare grossi passi in avanti in quella che è l’opera pubblica più controversa in assoluto: il ponte sullo Stretto di Messina.