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Vivere insieme? Si può

Nelle atrocità della guerra arrivano esempi virtuosi di collaborazione e fratellanza tra israeliani e palestinesi.
Nelle atrocità della guerra arrivano esempi virtuosi di collaborazione e fratellanza tra israeliani e palestinesi.

È ancora possibile una convivenza pacifica tra israeliani e palestinesi alla luce di quanto ormai è successo? Sarà mai possibile riuscire a vivere in una città a popolazione mista e costruire insieme una società pacifica? La risposta potrebbe essere sì e arriva dalle pagine del The Guardian, che negli scorsi giorni ha raccontato di alcuni esempi virtuosi di collaborazione tra le due parti. Molti volontari di diverse etnie si sono attivati per portare un aiuto concreto nelle zone devastate dal conflitto, per cercare di stemprare, per quanto possibile, il clima di tensione e violenza esploso nel Paese. Haifa, è una città di quasi 300 mila abitanti, situata nel nord di Israele, che pur tra tanti problemi ha sempre rappresentato un modello possibile di convivenza civile tra popolazioni di etnia e religioni diverse.

La pace nasce con l'educazione e l'istruzione
Nel 2013, all'agenzia d'informazione Sir, Eliezer Kulas, responsabile delle relazioni internazionali della municipalità di Haifa, aveva detto che «la pace nasce dalle famiglie, nelle scuole. L'educazione e l'istruzione sono due parole chiave, insieme allo sviluppo, nel ricercare la pacifica convivenza. La politica non deve influire negativamente nelle relazioni tra le persone, così come le religioni. Queste devo rappresentare il valore aggiunto di una società multiculturale e interreligiosa». Nel 2021 questo pacifico clima di convivenza era stato messo a dura prova dalle violenze esplose nel Paese e, anche nelle città miste, si era assistito ad una serie di manifestazioni e lanci di pietre, oltre che assalti contro negozi e abitazioni. Gli avvenimenti del 7 ottobre scorso, invece, sembrano aver avuto un effetto diverso e, in linea con il modello rappresentato, ad Haifa, volontari arabi ed ebrei si sono attivati per portare aiuto alle vittime e alla popolazione civile in difficoltà. «La mia amica ha perso suo fratello. Anche noi siamo in lutto - ha raccontato al Guardian Sally Abed, leader del movimento Standing Together - è molto difficile essere un cittadino palestinese in Israele in questo momento, non c'è spazio per le nostre voci, ma stiamo facendo tutto il possibile per preservare un senso di solidarietà israelo-palestinese e identificare i fattori di incitamento all'odio e alla violenza prima che diventino una spirale».

Una goccia nel deserto - Standing Together è un movimento che in Israele, tramite volontari ebrei e palestinesi, si batte per il perseguimento della pace e di una uguaglianza, sociale, economica e climatica, tra i diversi popoli presenti sul territorio. Come è possibile leggere sul sito ufficiale del movimento, «mentre la minoranza che beneficia dello status quo dell'occupazione e della disuguaglianza cerca di tenerci divisi, la maggioranza ha molto più in comune di ciò che ci divide». Scoprire e preservare i punti di contatto tra la popolazione palestinese e quella ebraica è il focus su cui Standing Together lavora da anni per promuovere una società inclusiva e cooperante, messa a dura prova dal governo Netanyahu che fomenta il razzismo e le divisioni sociali a danno, in particolar modo, della popolazione arabo-israeliana. Dei 10 milioni di abitanti di Israele, il 20% si identifica come arabo, compresi anche le diverse comunità cristiane, musulmane e beduine sperse sul territorio. Come riportato da The Guardian, sono state proprio le tribù beduine che abitano il deserto del Negev, che significa proprio 'Terra del Sud', colpite per prime da un razzo sparato dalla Striscia di Gaza, a correre in aiuto della popolazione ferita. Haaretz Sleman Shlebe , del villaggio di Bir Hadaj, ha raccontato che «dopo aver visto che c'era un grande caos, abbiamo capito che dovevamo fare qualcosa. Abbiamo sentito parlare di persone scomparse sia dalla comunità araba che da quella ebraica e sapevamo che grazie alla nostra eccezionale familiarità con il territorio del sud avremmo potuto aiutare».

E' importante sottolineare come questo spirito collaborativo non vada dato per scontato considerando come tale popolazione viene trattata nell'ambito della politica del governo israeliano. I beduini del Negev, infatti, hanno visto, nel tempo, il proprio territorio sempre più eroso da un utilizzo strumentale dello stesso da parte di Israele che vi ha collocato numerose sue colonie, e occupato vaste zone di terreno per usi militari. La storia, per troppo tempo inascoltata di tale popolo e riportata alla luce dopo la desecretazione nel 2017 di numerosi documenti del governo israeliano risalenti agli anni Cinquanta, parla di terre espropriate con la forza e di civili relegati in porzioni sempre più piccoli di territorio. Una situazione che non è andata certo a migliorare, complice anche l'approvazione, nel 2013, del Piano Prawer che prevedeva lo spostamento di circa 70 mila beduini e la distruzione di oltre trenta villaggi non riconosciuti da Israele.

Jaffa, che ha una guardia civile non armata arabo-ebraica -  Anche da Jaffa, città composta da una popolazione mista di ebrei e arabi israeliani, che costituiscono un terzo della popolazione, arrivano racconti di volontari che si sono riuniti per organizzare una guardia civile non armata arabo-ebraica in grado di allertare le forze dell'ordine su eventuali casi di violenza e proteggere la popolazione civile inerme. Attualmente tale corpo di volontari è composto da oltre mille volontari che, come precedentemente visto, hanno messo da parte qualsiasi interesse personale per far fronte comune ad una emergenza umanitaria di enorme portata.

Lì, dove la pace è impossibile - Se, come ricordato dalla maggioranza dei cittadini arabo-israeliani, in occasione di attacchi contro Israele, si passa in un secondo “dall'essere amico ad essere nemico”, vi sono etnie per le quali ogni tentativo di integrazione sembra impossibile. E' il caso dei richiedenti asilo di origine eritrea che rappresentano la netta maggioranza degli oltre 30 mila richiedenti asilo africani in Israele. Secondo i dati forniti dal Post, nel Paese sono presenti circa 20 mila eritrei, spesso arrivati illegalmente attraverso la penisola del Sinai. La comunità più ampia vive nei quartieri poveri di Tel Avivi e molti di loro, lo scorso settembre, si sono resi protagonisti di alcuni scontri con la polizia in occasione di alcune manifestazioni di piazza. Anche la comunità eritrea, comunque, ha partecipato alle attività di volontariato, cucinando i pasti per le persone sfollate dalle proprie case. “Speriamo che duri” si è detto all'inizio, in riferimento a questi esempi di ritrovata cooperazione tra ebrei e palestinesi, anche se appare difficile pensare che decenni di divisione e odio possano essere risolti in così breve tempo. Come raccontato a The Guardian da Alon-Lee Green, altro fondatore di Standign Together, «nella società araba in Israele c'è ancora molta paura. Ovunque si guardi, ci sono appelli di vendetta e questi appelli vengono dall'alto» riferendosi alle fazioni di estrema destra anche se, come confermato da Itamar-Ben-Gvir, ministro della sicurezza nazionale israeliano, «a Standing Together ci sono arabi che aprono le loro case agli sfollati, che inviano pacchi di cibo e giocattoli, che si impegnano a fondo per limitare l'incitamento online e che cercano di creare un ambiente più calmo». La volontà è quella di fare tesoro degli errori compiuti nel 2021, quando si dette libero sfogo alla violenza, per tenere salda la società civile desiderosa di costruire un clima di forte collaborazione.“Stiamo applicando tutto ciò che abbiamo imparato nel 2021-dice a The Guardian Abed, volontario del movimento-ripulire centinaia di rifugi antiatomici è stato un bene per tutti finora, assicurandoci che la gente sappia dove si trovano e che siano adatti allo scopo. Questa è la vera comunità”.


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