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Proteggere l'ambiente durante una guerra, si può?

Negli ultimi anni sono state adottate diverse risoluzioni e convenzioni, ma difficilmente sono state applicate o adottate da singoli Paesi
Negli ultimi anni sono state adottate diverse risoluzioni e convenzioni, ma difficilmente sono state applicate o adottate da singoli Paesi

Recentemente, un'analisi, la prima nel suo genere, ha tentato di calcolare il costo climatico della guerra tra Israele e Hamas, il cui teatro è principalmente la Striscia di Gaza. Ne è risultato che sono state emesse 281’315 tonnellate di Co2 nei primi sessanta giorni di conflitto, e oltre il 99% di queste sono da attribuire alle attività militari condotte unicamente da Israele - e in cui vengono inclusi anche i viaggi effettuati da aerei statunitensi atti a rifornire l’esercito dello Stato ebraico.

Dallo studio, intitolato "A multitemporal snapshot of greenhouse gas emissions from the Israel-Gaza conflict", emerge inoltre che il costo climatico maggiore arriverà più tardi: se e quando verrà raggiunto un accordo per il cessate il fuoco e la popolazione palestinese, le cui vittime sono almeno 25mila, potrà fare ritorno alle proprie abitazioni. E il punto sta proprio qui. Usando le tecniche più all’avanguardia, ricostruire i 100mila edifici fin qui distrutti o danneggiati genererà almeno 30 milioni di tonnellate di gas a effetto serra.

Queste cifre, ancora da confermare in peer review, mostrano con evidenza l’impatto ambientale di una guerra - anche se resterebbe ancora da considerare quello sulla salute a lungo termine. E danno da credere che, quando si parla di imporsi in un dato territorio o di condurre attività militari, non esistano limiti all’inquinamento generabile.

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Parlare di ecocidio
Proprio un anno fa, il 25 gennaio del 2023, l’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa si riuniva per dibattere sulla questione e adottava una risoluzione in considerazione della quasi totale assenza - o dell’imprecisione nel trattare l’argomento - a livello di diritto internazionale della protezione dell’ambiente in situazioni di conflitto armato.

Nel testo, adottato dall’Assemblea il medesimo giorno, si legge infatti che nonostante negli anni siano stati sviluppati numerosi strumenti legali atti a garantire la protezione dell’ambiente, nessuno «fa esplicito riferimento ai danni causati da un atto di guerra o da ostilità militari e/o li esclude». E propone quindi di inserire nella Convention on the Protection of the Environment through Criminal Law, in corso di revisione, il reato di ecocidio.

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Molte le raccomandazioni
Solo alcune settimane prima, il 7 dicembre 2022, l’Assemblea generale delle Nazioni Unite aveva adottato una risoluzione molto simile, in cui venivano emanate numerose raccomandazioni riguardanti la protezione dell’ambiente in un contesto di conflitto armato.

Alla norma numero 4 della seconda parte si legge ad esempio che «gli Stati dovrebbero designare, sotto forma di accordo, le aree di importanza ambientale e culturale» e - viene indicato poco più sotto -, se queste dovessero venire comunque colpite - nello specifico quelle abitate da popolazioni indigene -, i governi responsabili dovrebbero impegnarsi nel prendere misure concrete al fine di rimediare al danno causato.

E la risoluzione non si ferma di certo qui. La norma 19 tratta infatti un altro punto interessante, quello inerente a un potere occupante. Questo dovrebbe «rispettare e proteggere l’ambiente del territorio che ha occupato», «prendere delle misure che provvedano al benessere della popolazione in termini ambientali» e «dovrebbe rispettare le leggi ambientali preesistenti in quel dato territorio».

Inoltre, nel caso in cui l’origine del danno ambientale non possa essere identificata o sia impossibile porvi rimedio, «gli Stati e le organizzazioni di rilevanza internazionale dovrebbero implementare delle misure appropriate affinché il danno venga riparato ove possibile e/o compensato con dei fondi o con qualche altra forma di assistenza».

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Norme raramente applicate
Sia per quanto riguarda il Consiglio d’Europa, sia per quanto riguarda le Nazioni Unite, si resta nel campo di possibili misure che, fin qui, non sono ancora diventate vere e proprie leggi. Tuttavia degli obblighi già esistono. A confermarlo è Amnesty International.

«Esiste la Convenzione sul divieto dell'uso di tecniche di modifica dell'ambiente a fini militari o a ogni altro scopo ostile, che mira a prevenire i danni all'ambiente durante un conflitto. Anche il Primo protocollo aggiuntivo alla Convenzione di Ginevra proibisce la distruzione dell'ambiente durante la guerra. Il problema è che raramente queste norme vengono applicate. Anche perché devono essere soddisfatti tutti i criteri. Ad esempio, la distruzione ambientale "a lungo termine" non può essere invocata immediatamente o direttamente dopo una guerra; ci si può appellare alla distruzione ambientale "grave", ma è una questione di definizione».

Un aspetto, quello della terminologia, invocato anche dal Consiglio d’Europa, che chiede di tornare sulle definizioni incluse nelle norme, al fine di renderle maggiormente esplicative e precise.

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Si può chiedere giustizia?
Considerando le lacune e i punti che restano da meglio definire, è quindi possibile proteggere l’ambiente in una situazione di conflitto armato? Nessun caso di questo tipo è mai stato trattato nelle sedi della Corte penale internazionale né della Corte europea dei Diritti dell’Uomo, come confermato da entrambe le istituzioni.

A livello teorico, ipotizza Amnesty, resta comunque possibile fare appello - in particolare al tribunale dell'Aia -, nel caso in cui nel corso di una guerra una delle parti coinvolte faccia ricorso a un’arma in grado di danneggiare l’ambiente. Ma, non essendoci precedenti, la giurisprudenza non fornisce cavilli a cui ancorarsi. È quindi assolutamente necessario, reitera l'ong, erogare nuove leggi.


Appendice 1

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keystone-sda.ch / STR (Mohammed Hajjar)

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