L'obesità e il diabete sono problematiche urgenti tanto quanto per i Paesi più ricchi che in quelli ancora in via di sviluppo
Il 'doppio fardello della malnutrizione' è un preoccupante fenomeno che riguarda i Paesi più poveri del mondo. Fa riferimento ai problemi di alimentazione che affliggono le persone prive di risorse economiche: da una parte la malnutrizione e dall'altra obesità. Sembrano problemi diametralmente opposti eppure, a ben vedere, sono come due facce della stessa medaglia: la povertà non garantisce il consumo di cibo necessario per vivere o per vivere in maniera sana.
Che sia per malnutrizione o per obesità i Paesi poveri sono afflitti da gravi problemi di salute pubblica che compromettono, in maniera drammatica, la qualità di vita della propria popolazione. Se l'associazione tra povertà e mancanza di cibo è di facile comprensione, più difficile è capire la problematica dell'obesità nei Paesi in via di sviluppo. La sempre maggior diffusione di cibi a basso costo, confezionati e ultra processati, sta spingendo le fasce più povere della società a consumare cibo malsano, in parte responsabile dell'obesità e di altre gravi patologie quali, ad esempio, il diabete.
Un consumo eccessivo - Una recente ricerca ha messo in relazione l'aumento globale dei tumori nelle persone al di sotto dei cinquant'anni con un consumo eccessivo di tale tipo di alimenti. Nel dicembre del 2019 l'Organizzazione Mondiale della Sanità ha pubblicato una serie di articoli sul tema, sulla rivista medica The Lancet, nei quali definiva il 'doppio onere' come «la nuova realtà nutrizionale» per i Paesi a basso e medio reddito. Ne è una dimostrazione il fatto che, nei Paesi in via di sviluppo, le vendite di cibo ultra elaborato sono più che raddoppiate dal 2006 al 2019.
Di questo drammatico problema se ne è occupato, lo scorso settembre, il quotidiano inglese The Guardian che ha raccolto l'allarme lanciato da diversi nutrizionisti esperti di economie in via di sviluppo. I ritmi massacranti di lavoro, e il basso costo del cibo confezionato, rende questi prodotti sempre più richiesti quale alternativa a un pasto tradizionale. Il giornalista Kaamil Ahmed ha raccolto le testimonianze dei tanti lavoratori delle aree povere del mondo che si trovano a consumare grandi quantità di cibo dolce e processato per far fronte ai morsi della fame spendendo pochi spiccioli.
Dolci come pasti - Jewel Ahmed, conduttore di risciò a Dhaka, in Bangladesh, racconta di mangiare due o tre bun roti al giorno. Si tratta di panini dolci pieni di burro venduti a 10 taka, meno di dieci centesimi di euro, nelle bancarelle della città. «A volte sento ancora fame, ma mi fanno andare avanti per qualche ora». Un tempo, Ahmed riusciva ad avere una dieta molto più variegata, a base di pesce e verdure, ma l'aumento della salinità dei fiumi della sua città natale non gli ha più permesso di procurarsi del cibo, costringendolo a trasferirsi in città e a nutrirsi di cibo confezionato.
«Il cibo di Dhaka è costoso e, con l'aumento del costo della vita, anche gli articoli di base sono diventati inaccessibili». Il fatto che i bun roti siano confezionati si rivela essere un vantaggio per i lavoratori come il giovane intervistato perché «si mantiene morbido e può essere mangiato facilmente, specialmente quando il mio risciò è bloccato nel traffico».
Come riportato da The Guardian, secondo una ricerca effettuata da Thomas Reardon, un esperto di sistemi alimentari presso la Michigan State University, l'Africa subsahariana e l'Asia meridionale sono le regioni in cui è più presente il fenomeno del doppio onere della malnutrizione. A Nairobi, in Kenya, i chioschi vendono degli snack di mais, o mandazi, a base di pasta fritta, e molte bibite gassate, per pochi scellini.
«Se non puoi permetterti un chilogrammo di riso o farina - afferma la diciottenne Lucy Mwenda che gestisce uno di questi chioschi - compri mandazi e puoi ancora sopravvivere». Rispetto alla prospettiva di morire di fame, per la ragazza i problemi di salute legati a un consumo eccessivo di cibi ricchi di grassi sono assolutamente secondari, e c'è da capirla. Gli snack sono diventati parte integrante dell'alimentazione delle persone tanto che il quarantaquattrenne Moses Karori dice che «devi prenderli, specialmente quando hai figli. È un crimine tornare a casa senza uno spuntino».
Due terzi dell'Asia - Quanto raccontato da persone di Paesi diversi in merito al consumo di cibi calorici e confezionati non deve sorprendere: secondo un rapporto 'State of snacking', stilato nel 2022 dal produttore di snack Mondelez, proprietaria di marchi quali Oreo, Milka o Tuc, il 55% delle persone sostituisce un pasto tradizionale con uno snack, almeno una volta alla settimana. Questa abitudine riguarda i due terzi della popolazione asiatica.
Questi dati non possono che far riflettere sulla gravità del fenomeno. A causa della crisi economica in corso, sempre più persone sono costrette a nutrirsi consumando del cibo ultra processato che potrebbe condannarle, in un prossimo futuro, a sviluppare diverse malattie, spesso molto gravi.
Questo problema alimentare è strettamente connesso anche alla maggiore industrializzazione e urbanizzazione dei Paesi in via di sviluppo che ha costretto tante persone, sradicate dai propri villaggi d'origine, a riversarsi nelle città in cerca di un lavoro. I ritmi estenuanti, e la mancanza di soldi, li spinge, quindi, a comprare cibi confezionati facilmente reperibili e di veloce consumazione. Interpellato dal Guardian, il noto ricercatore e nutrizionista statunitense Barry Popkin ha spiegato che «questi alimenti danno a chi li consuma una rapida esplosione di carboidrati, ma li attraversa e ne hanno bisogno di un altro».
Secondo Popkin, il consumo di cibo ultra processato, ossia cibo sempre più ricco di zucchero e sale, «è un fenomeno che l'industria ci ha venduto una volta che ha iniziato a creare cibi pronti da mangiare e a pubblicizzarli e venderli, negli anni '70 negli Stati Uniti, nel Regno Unito e un paio di anni dopo in Europa. Ora è diventato la norma per gli adolescenti e i giovani adulti mangiare di corsa, fare uno spuntino in fabbrica o in ufficio. Questo è incredibilmente comune a livello globale».
Ciò ha portato, come visto, a un aumento di malattie non trasmissibili, soprattutto a causa dell'eccessivo consumo di tali tipi di alimenti in età infantile, oltre a un incremento di rifiuti di plastica che hanno effetti devastanti per l'ambiente. Come spiegato al quotidiano britannico da Francesco Branca, direttore del Dipartimento nutrizione per la salute e lo sviluppo dell'Oms, molte forme di malnutrizione sono collegate, e una persona, denutrita da bambina, crescendo corre un rischio maggiore di sviluppare altre malattie, come l'obesità.
Secondo Branca, l'eccessiva disponibilità di cibo confezionato, e un'attività di marketing sempre più aggressivo, rivolto soprattutto alle fasce più giovani e deboli della popolazione, è responsabile di «un sistema alimentare che non consente l'accessibilità e la disponibilità di cibo sano, ma consente solo alimenti ad alto contenuto energetico che però non forniscono la quantità adeguata, ad esempio, di vitamine». Per invertire questa pericolosa tendenza, occorrerebbe adottare dei provvedimenti che possano cambiare le cose, sia a livello di produzione e trattamento dei prodotti alimentari così come a livello di distribuzione, marketing e attribuzione dei prezzi.
Occorrerebbe garantire l'accesso a una alimentazione sana che, secondo le indicazione dell'Oms, si basa sul consumo di abbondanti porzioni di frutta, legumi, cereali completi, noci e semi, limitando al massimo il consumo di carni trasformate, bevande energetiche, grassi saturi e acidi grassi. Secondo la Fao, entro il 2030, due miliardi di persone si alimenteranno con cibi malsani, poveri di vitamine e minerali con conseguente aumento delle malattie correlate a una cattiva alimentazione, come ipertensione, diabete e malattie cardiovascolari. La risposta a un problema tanto drammatico non può essere data a livello locale, ma è urgente attivare delle politiche globali che possano garantire l'accesso al cibo sano anche alle fasce più povere della popolazione mondiale che, come sempre, pagano il prezzo più oneroso di una sfrenata corsa all'industrializzazione e a una indiscriminata globalizzazione.