Le vite dei più piccoli a Gaza sono state stravolte da oltre otto mesi di guerra. La testimonianza della portavoce Unicef Tess Ingram.
Se a Tel Aviv tiene banco il caos all'interno del governo del premier Benjamin Netanyahu, che ha annunciato lo scioglimento del gabinetto di guerra, a Gaza si continua a morire. E il prezzo più alto lo pagano, come in ogni conflitto, i più piccoli.
«Da più di otto mesi i bambini nella Striscia vivono sotto i bombardamenti. Un tempo interminabile che ha stravolto le loro vite», ci ha raccontato Tess Ingram, portavoce dell'Unicef. Ingram si è recata due volte a Gaza dopo l’attacco del 7 ottobre. A ogni viaggio il baratro in cui si trovano i palestinesi si è fatto sempre più profondo.
Oggi Ingram dipinge una situazione tragica in cui la speranza ha progressivamente lasciato spazio alla più cupa disperazione.
Dopo quasi nove mesi di guerra, quali sono i bisogni più urgenti per i bambini?
«I ritardi degli aiuti internazionali hanno trasformato la guerra in una crisi umanitaria. Il destino di Gaza è sempre stato legato agli aiuti dell’Onu, ma dopo gli attacchi del 7 ottobre questi sono stati dimezzati o addirittura cancellati. Ora mancano cibo, acqua, medicine, ma anche un riparo e soprattutto un’istruzione. Ho incontrato ragazzi che indossavano gli stessi vestiti da mesi, scalzi e affamati. Ogni aspetto della loro vita è cambiato. Le condizioni nelle quali vivono sono spaventose».
Cosa è cambiato dopo l’operazione israeliana a Rafah?
«L’assedio di Rafah ha reso la situazione ancora più insostenibile (ed era difficile immaginarlo). Il valico al confine con l'Egitto è rimasto chiuso. La città si è trasformata in una trappola per le migliaia di persone in fuga dal nord. Inoltre è diventato molto difficile raccogliere e distribuire i pochi aiuti che riescono a entrare nella Striscia a causa della forte sorveglianza dell’esercito israeliano. Durante uno spostamento il nostro convoglio umanitario è stato colpito. Questo ci impedisce di fare il nostro lavoro. Non possiamo spostarci liberamente».
Lei è stata a Gaza più volte durante il conflitto, raccogliendo diverse testimonianze drammatiche. Quale storia l’ha colpita maggiormente?
«Durante una visita all'ospedale Europeo, che si trova nella provincia di Khan Yunis, ho trovato un ragazzo ricoverato con una pallottola in testa. Era stato colpito mentre attraversava una zona in teoria protetta. Ho incontrato la sua famiglia, la nonna, i genitori e i fratelli. Suo padre mi raccontava che amava giocare a calcio. Erano tutti commossi e arrabbiati, ma erano ancora molto fiduciosi. Sono tornata due giorni dopo e non ho trovato più nessuno. È stato un momento che mi ha riempito di rabbia. Uscendo dall’ospedale ho visto un’altra ragazza di nove anni che, mentre si recava in visita dai nonni, è stata colpita da un missile. Aveva un’enorme ustione su tutta la schiena. I medici mi hanno raccontato che è rimasta in cure intense per 16 giorni, ma non sono stati in grado di operarla per la mancanza di attrezzature e di farmaci. 16 giorni nei quali ha sofferto le pene dell’inferno».
Cosa significano queste due testimonianze?
«Queste storie sono solo due esempi di due bambini in un giorno in un ospedale. Ma quello che è successo si ripete ogni giorno a migliaia di altre piccole vittime. Dobbiamo ricordarci che ogni volta che sentiamo il numero dei feriti e dei morti sui giornali, dietro a queste cifre c’è sempre un bambino che soffre».
Oltre alla fame e ai pericoli della guerra, i bambini a Gaza sono privati anche di un’educazione. Perché non è un aspetto secondario?
«Esatto, spesso dimentichiamo l’educazione. Per più di otto mesi nessun bambino a Gaza è andato a scuola. Si è creato un vuoto nelle loro vite. L’assenza della scuola non condiziona solo l’educazione e lo sviluppo dei ragazzi, ma influisce anche sulla percezione e sulla loro routine. Inoltre, non hanno uno spazio sicuro per elaborare le loro emozioni. I traumi dei bambini si cementificano e non trovano un luogo in cui poterli gestire».
Quali sono i rischi per i bambini che rimangono senza un’istruzione?
«Senza scuola, i ragazzi sono maggiormente esposti agli abusi, ai matrimoni di minori e ai rapimenti. Le famiglie sono disperate e si impone una necessità di sopravvivenza. A fine aprile abbiamo organizzato una scuola provvisoria a Rafah. L'offensiva dell'esercito israeliano ha compromesso tutto. Non sarà facile riprodurre lo stesso progetto, anche perché non ci sono luoghi sicuri dove poter raggruppare i bambini».
Come gestire l’emergenza e il limite di sopportazione delle persone?
«Anche la resilienza ha un limite. La popolazione della Palestina ha già dovuto affrontare tanti altri momenti difficili, ma quanto sta capitando adesso è qualcosa di diverso. Quest’anno sono stata a Gaza due volte (a gennaio e ad aprile). Ricordo una madre con tre figli e cinque nipoti orfani da accudire. A inizio anno era ancora piena di speranze. Era sicura di riuscire a tornare nella sua casa, a nord di Gaza. Tre mesi dopo queste speranze si erano ormai dissolte. La resilienza delle persone è messa a dura prova. Siamo preoccupati. Non vogliamo che i bambini rinuncino alla speranza. Per questo stiamo facendo il possibile per aiutare ad affrontare questo dramma che influisce su ogni aspetto della loro vita».