Alle prossime elezioni americane si profila lo stesso scontro. Ne abbiamo parlato con il professor Morris Mottale della Franklin University
Fra meno di un anno, i cittadini degli Stati Uniti saranno nuovamente chiamati alle urne per scegliere il prossimo presidente. E lo faranno dopo un quadriennio scandito da costanti tensioni, globali e non, dalla pandemia alla questione israeliana, passando per la guerra in Ucraina, il tumultuoso ritiro dall'Afghanistan e lo strascico della tornata elettorale precedente. E ora, anche se i ticket non sono ancora ufficiali, all'orizzonte appare molto probabile un "sequel" dello scontro del 2020. Joe Biden contro Donald Trump. Ne abbiamo parlato con il professor Morris Mottale, docente di scienze politiche e relazioni internazionali alla Franklin University di Lugano.
Se è vero che quando si va alle urne si pensa prima ai problemi che si hanno davanti alla porta di casa, è altresì vero che la popolazione americana è da decenni abituata a sentirsi la più forte. Mentre l’immagine della potenza americana è un poco sbiadita in questi ultimi anni, non molto brillanti. Ci dobbiamo aspettare una campagna elettorale più aggressiva anche sui temi di politica estera?
«Una "domanda da 64’000 dollari", come si diceva un tempo. Certamente giocherà un ruolo, ma in America la politica estera è legata soprattutto alla questione dell’immigrazione, quindi al confine con il Messico e l’America Latina. E quindi ogni candidato che formulerà la questione in questi termini susciterà un grande interesse. Perché quello è il cosiddetto “soft underbelly”, il punto debole degli Stati Uniti».
Quindi, nonostante i diversi focolai di crisi - l’Ucraina e, soprattutto, il Medio Oriente - che vedono gli Stati Uniti impegnati in prima fila, le priorità restano quelle più vicine…
«Certamente. Il paradosso qui sta nel fatto che il Messico è un grandissimo partner commerciale degli Stati Uniti. E quando si parla della potenza economica americana, spesso ci si dimentica che bisogna aggiungere nei calcoli anche il Messico e il Canada. E così la potenza americana diventa enorme. Il Messico ha quasi 130 milioni di abitanti e, nonostante i suoi problemi interni, ha un’economia molto florida. Il Canada è uno dei Paesi del G7. E tra i tre Paesi c’è un accordo di libero scambio. Un secondo grande problema di politica estera che sarà sfruttato sarà poi quello della Cina. Poi c’è l’eterno problema del Medio Oriente. E infine c’è la guerra in Europa, che sarà oggetto dei dibattiti tra gli specialisti e nei partiti. E da quel che leggo, ho l’impressione che molta gente sia stufa dell’Europa…».
Per quale motivo?
«In primo luogo perché dopo questi quasi due anni di guerra si è sentita molta retorica. L’Europa qui, l’Europa là… ma non è che ci sia stato molto attivismo europeo. Gli Stati Uniti invece stanno cercando di metterci altri 100 miliardi di dollari (il presidente Biden ha presentato la richiesta al Congresso lo scorso mese di ottobre, ndr.), una cifra a mio avviso inconcepibile».
Tornando ai temi, anche interni, quali sono gli altri punti caldi?
«Ci saranno discussioni sulla difesa in ottica futura, anche se c’è un certo consenso sul tema. Ci saranno i più progressisti tra i Democratici che sosterranno la necessità di spendere più soldi per l’assistenza pubblica. C’è la questione del cambiamento climatico, che include tutto ma alla fine non conclude niente. E c’è un altro punto, di cui stranamente si parla poco: l’economia americana sta andando molto bene. I Democratici e Joe Biden potrebbero usarlo come argomento, ma questo non si vede. E se guardiamo i sondaggi, molta gente mostra paura verso il futuro economico americano».
Siamo arrivati ai nomi. In attesa dei ticket ufficiali, si sta profilando la stessa sfida del 2020: Joe Biden contro Donald Trump. E partirei dal presidente, il cui gradimento è ai minimi storici. È una candidatura forzata per scongiurare un ultimo anno alla Casa Bianca da “anatra zoppa”?
«Questa è una possibilità. Un’altra possibilità è che fra qualche mese qualcuno tra i Democratici si presenti come alternativa a Biden. Non solo. Il partito è gestito dai sostenitori dell’ex presidente Obama. È possibile che sosterranno Biden e se lui verrà eletto, con Kamala Harris come vicepresidente, quest’ultima potrà subentrare nel ruolo. La Costituzione americana lo permette nel caso il presidente non fosse più in condizioni fisiche buone. Ma importante sarà anche il ruolo dei media. La stampa liberal di New York, come la CNN e il New York Times, è tutta pro-Biden».
Ribalto quindi la questione: se non Biden, chi? Nel 2020 il testimone sembrava destinato appunto a Kamala Harris, che però è un po’ scomparsa dai radar…
«Sembra che la tengano tranquilla. Parla poco e sorride. Probabilmente è gestita da qualcuno alla Casa Bianca. O forse anche dal marito, l’avvocato Doug Emhoff, che è molto ben inserito. Per quanto riguarda invece i possibili nomi, penso a Gavin Newsom, governatore della California, per diverse ragioni. Non solo il suo è lo stato più grande, ma è molto conosciuto ed è anche collegato, da legami di parentela, con l’ex speaker della Camera Nancy Pelosi. Andando sulla east coast un nome potrebbe essere quello del senatore di New York Chuck Schumer (l’attuale Leader della maggioranza del Senato, ndr.). È comunque difficile dirlo. E non possiamo escludere che nei prossimi mesi emerga qualcuno che nessuno conosce o che nessuno considera. Quello che in inglese viene definito un “dark horse”. In fondo, chi pensava nel 2016 che Trump potesse diventare presidente degli Stati Uniti?».
Ecco, parliamo anche di lui. È la figura polarizzante sul fronte Repubblicano, quella che sembra destinata a staccare il ticket per la volata finale.
«Sì, i sondaggi dimostrano in modo chiaro che Trump è più popolare di tutti. E in qualunque elezione tra lui e Biden, in questo momento vincerebbe il primo. E di gran lunga».
Non a caso pochi giorni fa ha comunicato che non avrebbe preso parte ad alcun dibattito tra i Repubblicani…
«Non ha bisogno di farlo. A lui basta farsi vedere. Nel 2016 è riuscito a farsi eleggere senza grandi dispendi di energia finanziaria. Era sufficiente mostrarsi e fare scena. E la dimostrazione sta nell’enorme numero di persone che si presenta ai suoi comizi. È un entertainer e ha un’energia incredibile».
E su quale nome di peso potrebbe contare Trump nel suo eventuale bis?
«Sicuramente Mike Pompeo. Ha tutte le virtù necessarie. È stato a capo della CIA; è stato membro del Congresso; era ufficiale nell’esercito americano e soprattutto, non dimentichiamolo, è stato anche Segretario di Stato. Quindi penso che sarebbe una figura perfetta come vicepresidente. Tra gli altri nomi su cui potrebbe contare per il suo gabinetto troviamo diversi governatori repubblicani, penso in particolare a quello del Texas, Greg Abbott. E tra le ipotesi, anche se la vedo poco probabile, ci potrebbe essere anche Ron De Santis».
E osservando la situazione da fuori invece? Come guardano a questo possibile scontro i rivali degli Stati Uniti?
«Trump è molto popolare in Medio Oriente e in Asia. In Iran è amato perché era contro il regime iraniano, quindi ogni iraniano dissidente sta con Trump. E anche in India e in Cina lo ammirano molto, perché è un uomo di successo. Uno che ha fatto un sacco di soldi, riuscendo in tutto e arrivando a diventare presidente degli Stati Uniti. In un certo senso incarna il sogno americano».
A Pechino quindi, che rappresenta sul medio-lungo termine la partita più importante per Washington, possiamo dire che fanno il tifo per un ritorno di Trump piuttosto che per un Biden bis?
«Direi di sì. Ma che sia Trump o Biden, la Cina sta comunque tentando di mantenere buone le relazioni con gli Stati Uniti. Lo si capisce anche ascoltando di questi tempi i discorsi del loro ministro degli Esteri. Fanno di tutto per non provocare gli Stati Uniti. Perché in fondo anche la Cina dipende dagli Stati Uniti e non il contrario. Questo è un fatto».