Kamala Harris o Donald Trump? Chi determinerà il vincitore? Uno sguardo a elettori e swing states con Mario Del Pero di Sciences Po
Sarà infine il momento della prima presidente donna degli Stati Uniti o assisteremo al ritorno del tycoon nel Distretto di Columbia? La contesa tra Kamala Harris e Donald Trump si gioca su margini ristretti. E mentre il 5 novembre è sempre più vicino, gli sguardi sono tutti puntati su quei sette Stati in bilico - Wisconsin, Pennsylvania, Michigan, Georgia, North Carolina, Nevada e Arizona - che consegneranno de facto le chiavi della Casa Bianca a una o all'altro.
La caccia però non è solo al voto degli indecisi. «Non è così che si vince. La percentuale di indecisi, in generale ma soprattutto in questi sette swing states, che saranno decisivi, è limitatissima. Stiamo parlando di pochi decimali. Perché in un contesto ad alta polarizzazione, ci sono due blocchi politico-elettorali ampi, che assorbono quasi tutto l'elettorato. E in mezzo rimane un segmento di indecisi, o indipendenti, molto basso. Storicamente molto basso. Ce lo mostrano anche i sondaggi, che sono caratterizzati da una grandissima staticità. C'è una bassa mobilità di opinioni e quindi di voti potenziali. Quindi per vincere in realtà bisogna mobilitare appieno il proprio elettorato. Portarne alle urne il più possibile. Che è quello che rischiano i democratici con un pezzo del loro elettorato, critico verso Harris e Biden per la vicenda di Gaza», ci spiega Mario Del Pero, professore di Storia Internazionale e di Storia degli Stati Uniti presso l'Institut d’études politiques SciencesPo di Parigi.
Inoltre, convincere i propri elettori ad andare alle urne può fare involontariamente a pugni proprio con la volontà di attirare a sé il voto di chi non ha ancora deciso il colore della sua scheda, «perché i tuoi li mobiliti e li galvanizzi magari radicalizzando il tuo messaggio. E facendolo tendi ad alienare quei pochi indecisi che in un'elezione così stretta sono molto importanti. Trovare un equilibrio è complicatissimo».
Detto questo, chi sono gli indecisi? «Semplificando molto, il profilo può essere di due tipi. Da un lato c'è chi non è interessato alla politica, e la vive come qualcosa di molto distante. E questo elettore lo catturi con un messaggio più pragmatico, su temi economici, o con un po' di demagogia. E poi c'è l'elettore indeciso e altamente politicizzato. Ed è l'elettore deluso. Deluso dalla polarizzazione, dalla radicalizzazione. E lo catturi con un messaggio più moderato. Che è quello che sta cercando di fare Harris. Anche se la sua moderazione credo sia più mossa dall'obiettivo di catturare gli elettori repubblicani, e soprattutto le elettrici, che non amano Trump».
Stati in bilico, da cosa dipende?
Più complesso è invece tracciare un "identikit" comune per quegli Stati in cui non prevale né il blu né il rosso. Del Pero conferma. «Cosa renda uno Stato uno swing state o meno è oggetto di studio e di discussione. Gli swing states di quest'anno sono gli stessi di quattro anni fa. Ma sono usciti dal gruppo Stati che fino al 2016 consideravamo essere swing states naturali, come la Florida e l'Ohio. L'Ohio che, per qualsiasi parametro - demografico, socio-economico, storico -, non è così dissimile dagli altri tre Stati del Midwest deindustrializzato, Wisconsin, Michigan e Pennsylvania, che invece sono swing states. Ecco, sul perché non lo sia più e gli altri sì è difficile dare delle risposte».
«Gli swing states di quest'anno hanno alcune grosse peculiarità. Prendiamo i tre Stati del Midwest, che hanno storie e strutture abbastanza diverse ma hanno anche dati che li accomunano. Sono Stati dove la popolazione bianca è maggioritaria, anche se nelle aree metropolitane ci sono molti afroamericani. Sono Stati che, come detto, hanno sofferto i processi di deindustrializzazione. Erano il cuore manifatturiero del paese e hanno cessato di esserlo. E sono - e questo è un dato che vale per tutti gli altri - Stati dove è forte la frattura tra aree metropolitane, con una forte concentrazione di popolazione, e aree e contee rurali dove la densità abitativa è molto minore». Ed è questo il parametro che, unito a quello dell'istruzione, «oggi ci permette di misurare e predire meglio il voto».
«Il cleavage, la frattura tra le aree, negli orientamenti di voto si è molto radicalizzato», spiega Del Pero. «Si è molto ampliata la forbice tra come votano le aree urbane, sempre più democratico, e le aree rurali, sempre più repubblicano. Ci sono grandi agglomerati urbani come Pittsburgh e Philadelphia in Pennsylvania, Detroit in Michigan e Milwaukee in Wisconsin. E questo tratto è presente anche negli altri due "blocchi" di Stati. Ci sono due swing states nel sud, North Carolina e Georgia, che hanno grosse concentrazioni a Charlotte e Atlanta. E poi, ancora di più, ci sono i due Stati del sud-ovest, Arizona e Nevada, dove la popolazione è marcatamente concentrata nelle due contee attorno alle città principali, rispettivamente Phoenix e Las Vegas».
Oltre la "frattura"
A questa "frattura" che accomuna tutti e sette gli Stati in bilico, ci sono poi delle singole peculiarità. Il già citato "blocco" a tre nel Midwest, ora deindustrializzato. Poi North Carolina e Georgia, «che rispetto agli Stati del sud, che sono saldamente conservatori, quindi repubblicani, sono realtà più dinamiche, più integrate nell'economia globale. Atlanta lo è da tempo: Coca Cola, CNN, Delta. Il North Carolina, più di recente, ha investito tantissimo sull'hi-tech e la ricerca. C'è il grande "Triangolo della ricerca" formato dalle tre grandi università: North Carolina State University, Duke University e University of North Carolina. Charlotte è una città molto dinamica, con servizi, finanza e comunicazione, che ha visto la sua popolazione quasi triplicare in 20-25 anni. Quindi hanno caratteristiche diverse. E poi c'è una forte presenza di afroamericani. Un pezzo di elettorato importante per i democratici, soprattutto in Georgia, decisivo per la vittoria di Biden del 2020. Mentre in North Carolina queste trasformazioni hanno prodotto un influsso di lavoratori bianchi, qualificati, con titoli d'istruzione superiori, che sappiamo votare a larga maggioranza democratico. Infine, Nevada e Arizona, che sono due realtà particolari. L'Arizona è quella, fra questi sette, che ha avuto il miglior risultato economico negli ultimi quattro anni. Il Nevada invece, che vive molto di turismo, ha sofferto della crisi del Covid. Qui c'è una consistente minoranza ispanica. E in Arizona, stato di confine, il tema dell'immigrazione pesa molto».
Ma, tornando agli elementi in comune tra "i sette", si parlava anche dei livelli di educazione che «sono più o meno simili e riflettono la media nazionale», sottolinea Del Pro. «L'altro parametro fondamentale è la frattura tra coloro che hanno titoli di studio secondari, che votano sempre più democratico, e quelli che non lo hanno che tendono a orientarsi sempre più sui repubblicani. E anche questa è una novità. Perché la frattura non era così marcata. Anzi. Se andiamo a osservare il secondo dopoguerra, a lungo anche l'elettorato democratico con bassi livelli di istruzione tendeva a votare per i democratici molto più di quanto non faccia oggi».
O rosso o blu. Ma una terza via sarà sempre impossibile?
Forse mai quanto durante questa campagna elettorale, il popolo statunitense ha mostrato una certa insoddisfazione verso i due grandi partiti. E poco meno di un anno fa, quindi ben prima di qualsiasi primaria, era chiaro che gli americani non volessero un bis della sfida tra Donald Trump e Joe Biden, poi comunque disinnescata - a luglio - dallo storico passo indietro del presidente uscente. Ora, se non su grande e piccolo schermo, gli Stati Uniti non hanno mai avuto un presidente indipendente. Ma, considerando una certa "crisi" dei partiti, incapaci di rinnovarsi, e i cambiamenti demografici - e quindi di sensibilità -, questa cosa potrebbe prima o poi cambiare?
«No, non vedo come possano emergere candidati terzi. Ovvero partiti alternativi a democratici e repubblicani», commenta Del Pero. «Possono emergere su scala locale, municipale, forse anche statale. Ci sono dei senatori indipendenti. In questo momento sono tre: Angus King per il Maine, Bernie Sanders per il Vermont e Krysten Sinema per l'Arizona, che però poi votano quasi sempre con i democratici e contribuiscono a formare la maggioranza democratica al Senato. Abbiamo avuto storie di governatori e sindaci indipendenti, ma a livello nazionale è molto più complicato. Nulla lascia presagire che si andrà nella direzione di uno scardinamento dei due partiti. Anzi, vista la situazione attuale, e quello che è successo quattro anni fa, è più probabile che si verifichi una crisi della democrazia americana tout court prima che una crisi del sistema bipartitico».