La storia del noto serial killer americano è un fenomeno su Netflix. Ma le polemiche non mancano
A vederlo sembrava una persona a posto: capelli biondi, occhiali da vista, aria da ragazzo tranquillo guastata, forse, da una certa freddezza nello sguardo impenetrabile. Questo era Jeffrey Dahmer, nullafacente di giorno e collezionista di cadaveri di notte, condannato, nel 1992, a 17 ergastoli, uno per ogni persona che ha ucciso e sulla quale si è accanito compiendo atti che vanno dal cannibalismo alla necrofilia.
Una serie-fenomeno
La sua vicenda è tornata alla ribalta dopo che Netflix, dal 21 settembre scorso, ha iniziato a trasmettere la serie tv 'Dahmer- Mostro: la storia di Jeffrey Dahmer', ottenendo un incredibile successo di pubblico. La miniserie sul cosiddetto 'cannibale di Milwaukee' ha raggiunto oltre 196 milioni di visualizzazioni, solo nella prima settimana di trasmissione, ed è entrata nella Top Ten delle serie più viste in 92 Paesi al mondo. La miniserie è classificata anche come 'horror' alla luce del fatto che vi sono narrati crimini tra i più orrendi che si possano ricordare nella storia recente.
Il serial killer Jeffrey Dahmer, infatti, fu protagonista, tra il 1978 ed il 1991, di 17 omicidi a danno di ragazzi, spesso minorenni e per lo più omosessuali di etnia afroamericana o asiatica, che abbordava in club gay e ai quali, dopo averli convinti a seguirlo nel proprio appartamento, infliggeva una morta cruenta, solitamente per strangolamento, per poi infierire sezionare e occultare i loro cadaveri. In alcuni casi, Dahmer sottopose alcune delle sue vittime a lobotomia con l'inoculazione nel cranio di acido muriatico o acqua calda.
Parti del loro corpo vennero ritrovate conservate in formaldeide o nel freezer, mentre le teste venivano bollite fino a ridurle a teschio che poi veniva dipinto per sembrare di plastica. La categoria horror per una storia simile sembra, quindi, un termine eufemistico ed infatti, nonostante la lodevole interpretazione degli attori coinvolti nel progetto, la serie è stata subissata di feroci critiche da parte della critica, della carta stampate e dei famigliari delle vittime che non hanno gradito veder sbattuto il proprio dolore in prima serata.
Le immancabili polemiche
Un' accusa rivolta alla serie in questione è quella di razzismo. Il serial killer è riuscito a compiere indisturbato i suoi crimini per la bellezza di 13 anni perchè la Polizia ha ignorato le denunce e le chiamate effettuate dai vicini, tutti afroamericani. Il fatto che Dahmer fosse un cittadino bianco al di sopra di ogni sospetto fece sì che non si indagasse seriamente sul suo conto nonostante le tante segnalazioni e il fatto che gli agenti di polizia fossero anche entrati nel suo appartamento, a seguito della richiesta di aiuto di un ragazzo che poi divenne comunque vittima del mostro. Michael McCann, procuratore distrettuale di Milwaukee all'epoca dei fatti, ha archiviato le accuse di razzismo come «una idea ridicola», sostenendo che gli agenti di Polizia non avrebbero trascurato le vittime del serial killer per via della loro razza e del loro orientamento sessuale. Un'altra accusa rivolta alla serie è, infatti, proprio quella di omofobia.
Sembra che Netflix abbia voluto sottolineare eccessivamente che Dahmer fosse omosessuale, inserendo tra i tag della serie Lgbt+, ma la comunità è insorta chiedendo allo streaming che tale riferimento fosse immediatamente eliminato. Il tema dell'omosessualità di Dahmer è sembrato essere usato a fini strumentali, quasi fosse una chiave interpretativa degli orrori commessi.
Il dolore delle vittime
Un'altra categoria di persone che si è scagliata contro la serie su Dahmer sono i parenti delle sue vittime. Secondo coloro che hanno perso i propri cari, infatti, nella miniserie si strumentalizza fin troppo il dolore vissuto. Su Twitter Eric Perry, cugino di Errol Lindsey, una delle vittime di Dahmer, ha postato una foto relativa alla testimonianza della sorella della vittima, con quella ricreata da Netflix, mettendone in evidenza l'assoluta somiglianza tra le due.«Abbiamo ancora bisogno di questi film/ show/documentari?-si domanda Perry-c'era bisogno di traumatizzare ancora, ancora e ancora, e poi per cosa?».
Il post di Eric Perry ha riscosso, in breve tempo, molte testimonianze di vicinanza e solidarietà e sono stati in tanti a chiedersi se «Netflix non avesse amplificato il ruolo di Dahmer. Serve più rispetto» ha scritto uno degli utenti. Ciò che viene maggiormente criticato è il fatto che i parenti delle vittime non fossero a conoscenza del progetto del canale di streaming e si siano trovate, non essendo state preparate, a rivivere momenti drammatici della propria vita. Come detto da Rita Isbell ad Insider, la testimone citata quale esempio da Perry, «quando ho visto parte della serie, sono rimasta infastidita, mi ha restituito tutte le emozioni che provai all'epoca. Netflix avrebbe dovuto chiedere il nostro parere o comunque cosa provavamo. Un conto è se avessero dato parte del ricavato ai parenti delle vittime ma non è così. E' triste che stiano semplicemente facendo soldi con questa tragedia. È pura avidità».
Il fascino immortale del male
Il rischio concretamente avvertito, sia da chi è personalmente coinvolto nella vicenda di Dahmer sia da diversi spettatori della serie, è che si rischi di spettacolarizzare troppo la figura del serial killer, mostrando, senza remore gli orrori compiuti sui corpi delle vittime da una parte, e indagandone i risvolti psicologici dall'altra, quasi a voler trovare una scusante a tale genere di abominio. Per tali ragioni la serie di Netflix è stata duramente criticata da numerosi giornali del settore. Variety, ad esempio, sostiene che «la serie non raggiunge l'ambizione di spiegare l'uomo e le iniquità della società che ha portato ai suoi crimini» mentre Vanity Fair America ritiene che ci si dovesse concentrare di più sulla frustrazione «della comunità nera emarginata che dava allarmi inascoltati».
Anja Romano, critica culturale di Vox ha ribadito il fatto che le narrazioni su Dahmer, il serial killer più raccontato insieme a Ted Bundy, sono incentrate «con enfasi sui dettagli scabrosi, spesso sorvolando sul mucchio di problemi sistemici e fattori socioculturali che permisero che i delitti andassero avanti per tanto tempo». Per la giornalista, il fatto che le vittime di Dahmer fossero prevalentemente uomini omosessuali e afroamericani, o appartenenti a minoranze etniche, fece ritardare l'inizio delle indagini, proprio per le discriminazioni riservate a queste categorie di persone. «È possibile guardare un prodotto true crime senza trasformare nuovamente in vittime delle persone reali, almeno in una qualche misura?» si domanda Anja Romano, secondo la quale sarebbe necessario raccontare questo genere di storie partendo dal punto di vista delle vittime, sul loro contesto sociale e le conseguenze dei fatti sulla propria famiglia, senza spettacolarizzare gli assassini.
Il delitto può essere didattico?
Il dibattito è aperto, e se per alcuni anche il genere true crime, così come tutte le serie tv e i film, debba avere una qualche funzione educativa, per altri l'arte dovrebbe avere come unico obiettivo quello d'intrattenere, divertire, turbare o sorprendere senza dover per forza educare lo spettatore. Il dibattito è particolarmente vivace proprio con riguardo al genere true crime che, negli ultimi anni, ha avuto un vero e proprio boom. In questo caso, infatti, la narrazione dei fatti riguarda storie vere di persone, in molti casi ancora vive e che continuano a patire gli effetti dei drammatici eventi raccontati.
Secondo Mark Seltzer, professore presso il Dipartimento di Lingua inglese all'Università della California, il true crime è un «oggetto ibrido, un crimine reale che sembra un crimine da fiction». Tale genere, sempre secondo Seltzer, deve il suo successo alla esibizione dell'orrore e delle devianze umane ed ha come scopo «quello di produrre e organizzare le paure sociali del pubblico». È così che storie di crimine violento diventano intrattenimento di massa, in un rapporto ambiguo tra fascinazione per il male e la repulsione per lo stesso. Facendo leva su questi sentimenti basilari, l'orrore viene dato in pasto agli spettatori dimenticando, troppo spesso, che ciò che viene confezionata come una gustosa storia truculenta, ad uso e consumo delle masse, è il vissuto doloroso di persone vere che sono state protagoniste, loro malgrado, di storie di crimine veramente 'true'.