In occasione della giornata mondiale dell'ambiente, ne abbiamo parlato con Susanna Petrone, responsabile della comunicazione di WWF Svizzera
Siamo in più di otto miliardi. E se tutti vivessero come facciamo noi in Svizzera, con quelle che sono le nostre abitudini - la nostra normalità - ci vorrebbero quasi tre pianeti per sostenerci. Non si tratta di propaganda né di provocazione. Sono fatti. Si chiama impronta ecologica. E secondo l'Ufficio federale di Statistica, i nostri consumi sono 2.8 volte superiori rispetto alle risorse che il pianeta mette a disposizione di ogni persona. Il ragionamento si completa da sé: ci sono regioni del mondo, come la nostra, che vivono a spese di altre.
È un punto di osservazione scomodo, senza dubbio, ma forse - sfruttando l'occasione che ci viene offerta dalla giornata mondiale dell'ambiente, che ricorre, per la 51esima volta, oggi - è anche tra i migliori per provare a ragionare sul perché, nonostante una consapevolezza sempre più diffusa, alcuni messaggi, su quello che è un problema che tocca tutti, facciano ancora così fatica a passare. E lo abbiamo fatto con Susanna Petrone, responsabile della comunicazione di WWF Svizzera. «Credo che la grande difficoltà stia nel fatto che per noi esseri umani è difficile riuscire a vederci proiettati lontano nel futuro; fra cinquanta, sessanta o magari fra cento anni. È una difficoltà concreta e lo è per ognuno di noi: riuscire a capire come saranno le cose fra cento anni, quando noi non ci saremo più».
Una questione di prospettiva quindi, che fatica ad avere la meglio rispetto a problematiche che hanno scadenze più prossime e reclamano azioni che, istintivamente, appaiono più immediate. Ma c'è anche chi il fattore "urgenza" legato alle problematiche ambientali lo percepisce in modo netto. E, con una frequenza sempre maggiore in questi ultimi mesi, abbiamo potuto osservare collettivi, composti per la maggior parte da giovanissimi, che hanno deciso di passare dalle parole all'azione.
È accaduto anche alle nostre latitudini. Agli inizi di aprile un gruppo di attivisti si è incollato le mani sull'asfalto al portale nord del San Gottardo, sull'autostrada A2, bloccando i veicoli incolonnati. Un paio di settimane fa l'aeroporto Cointrin di Ginevra è rimasto in "stand-by" per un'ora, "ostaggio" di un centinaio di persone che chiedevano lo stop ai voli privati. E a due passi da noi, in Italia (ma non solo), neanche si contano ormai più gli episodi di opere e monumenti imbrattati, a volte con fango, altre facendo ricorso a vernici (va detto, lavabili, ndr.). Il dibattito che ne è sorto attorno è di quelli accesi. Qualcuno sostiene che questo sia l'unico modo per farsi ascoltare. Altri ritengono invece che così facendo, anche chi sostiene la causa finirà con il prendere le distanze da loro. I bracci della bilancia oscillano. Ma lei da quale parte pende?
«I cambiamenti climatici non hanno confini»
Prima una premessa, osserva Petrone. «L’illegalità e l’aggressività, anche a parole, sono inaccettabili». Detto questo, «quando osserviamo questi ragazzi che si incollano alle strade e che, in tutta risposta, vengono presi a schiaffi o c’è chi sui social network dice che "basta investirli"... Ecco, quello ci fa ben vedere come si ragiona dall’altro lato. Ognuno dovrebbe farsi questa domanda: quanto ascolto diamo alle ultime generazioni? Quanto peso diamo alle loro richieste? Perché è anche il loro futuro che ci si va a giocare. Pensiamo a una Greta Thunberg, che in fondo non fa altro che ribadire ciò che tutti gli esperti in tutto il mondo dicono. Quante volte abbiamo letto come viene banalizzata, denigrata e presa in giro? È un qualcosa che mai mi verrebbe in mente di fare con una ragazzina. Ora è maggiorenne, ma quando ha iniziato aveva 16 anni. E quando si leggono queste cose è inevitabile chiedersi: "Parleresti mai così a tua figlia o a tua nipote?". Purtroppo c’è una forte violenza verbale da parte di chi non vuole ascoltare. È veramente così grave ciò che chiedono? Ci si indigna quando uno di questi giovani sporca una statua - che si può poi lavare - ma quando è una grande azienda a rovinare un grande territorio, con intere comunità chiamate a farne le spese, allora ci si volta dall’altra parte…».
E la politica cosa dice? Perché, in fondo, quelle "missive" trascritte a colla e fango sono dirette a lei. E quello dell'ambiente è un tema che, lo vediamo, reclama sempre più spazio nelle discussioni politiche. Che torna ciclicamente alle urne, come accadrà di nuovo in poco meno di due settimane. E che crea divisioni. Per qualcuno infatti quelli ambientali sono problemi che la Svizzera non può risolvere. Sono troppo grandi. Ci dovrebbero pensare i grandi inquinatori - come la Cina, gli Stati Uniti e la Russia. E in parte è sicuramente così. Se questi non cambiano, risulta difficile immaginare di poter smuovere certi equilibri. Però, sottolinea Petrone, bisogna guardare anche all'altro lato della medaglia. «La Svizzera potrà sicuramente sembrare attenta, meno "sporca" e crea sicuramente meno emissioni di CO2. Però alla fine anche lei fa produrre alla Cina per poi importare. Quindi non si può far finta di nulla e dire che è solo colpa della Cina; che è diventata un'industria per tutti i Paesi europei. I cambiamenti climatici sono un problema globale. E se brucia la Foresta amazzonica o c’è un grande incendio in Australia, quello toccherà anche noi. E di questo bisogna esserne consapevoli. Perché viviamo sullo stesso pianeta. Non ci sono confini per i cambiamenti climatici».
Il peso della nostra impronta ecologica, prosegue Petrone, suggerisce inoltre che anche nel nostro quotidiano, ognuno di noi, può fare qualcosa di utile. E senza per forza dover stravolgere le proprie abitudini. «Non bisogna essere perfetti, bisogna solo iniziare». Ad esempio a tavola. «Se tolgo anche solo una volta alla settimana la carne dal piatto vado già a ridurre il mio impatto ambientale del 20% circa. Perché ovviamente la produzione della carne impatta per un terzo circa della quota, considerando la produzione effettiva, lo sfruttamento dei territori e tutto quello che viene definito "food waste", ossia, lo spreco alimentare. Buttiamo via meno cose. Mangiamo un po’ meno carne. Non c’è bisogno di rivoluzioni, né di diventare vegani. Basterebbe fare quello che già facevano i nostri nonni. Consumiamo più prodotti nostri, a chilometro zero, di stagione. Piccoli gesti alla portata di tutti. Perché, diciamolo, davvero abbiamo bisogno di mangiare le fragole a dicembre? Non possiamo mangiare una mela? Questo dobbiamo chiedercelo. Ma il discorso vale anche per gli spostamenti. Facciamo qualche passo in più invece di prendere l'auto per fare solo cinquecento metri».
Il freno lo abbiamo, la retromarcia no...
Piccoli gesti che possono contribuire a tirare il freno di una tendenza quantomai delineata. Perché «invertirla è impossibile. La direzione in cui si lavora oggi, con la soglia fissata a 1.5 gradi, è quella di una stabilizzazione della situazione. Anche se noi ci fermassimo del tutto, le temperature continuerebbero a salire perché la nostra atmosfera ha già una concentrazione di CO2 superiore a 400 parti per milione (ppm). Questa non scompare dall’oggi al domani se ci fermiamo. Quindi possiamo soltanto lavorare per evitare che la situazione vada del tutto fuori controllo». Quella delle 400 ppm è una soglia che, prima del 2013, non era mai stata oltrepassata. Di certo non negli ultimi 800'000 anni, stando alle analisi effettuate sulle carote di ghiaccio estratte nell'Antartide. Detto altrimenti: quella di oggi sul nostro pianeta è la concentrazione di CO2 più elevata di sempre. Perlomeno fino a domani.