Non esistono dati e statistiche complete riguardo ai decessi di queste persone. Autorità e Ong non sono molto disponibili nel rispondere
Morire durante la procedura di asilo. Dopo aver attraversato a piedi, stipati su furgoni o in equilibrio precario a bordo di un barcone, interi Paesi. Pezzi di mondo lasciati alle spalle per arrivare, ma non riuscire a poter vivere la meta o la tappa intermedia tanto ambita. È un problema che riguarda X persone. X perché nonostante le numerose richieste di informazione inoltrate a svariate Ong - e, per quanto riguarda la Svizzera, alla Croce Rossa e alla Segreteria di Stato della migrazione (Sem) -, questo dato rimane un’incognita.
Il Comitato della Croce Rossa internazionale, per esempio, si è prima mostrato disponibile e ha richiesto domande più precise rispetto a quelle inviate in un primo momento. Poi, però, ci ha rimandati alle sue singole organizzazioni nazionali affermando che il loro mandato si estende essenzialmente ai Paesi in guerra.
Siamo quindi rimasti in Svizzera, dove abbiamo contattato la Croce Rossa di riferimento - come consigliato anche da Amnesty International in quanto l’Ong dovrebbe essere in prima linea sulla gestione dei centri di accoglienza. «Non siamo responsabili di questo argomento», la risposta.
Contattata anche la Sem, in un primo momento ci è stato comunicato che i «casi sono rari» e che per questo motivo non esistono statistiche sui decessi delle persone richiedenti asilo.
Una risposta che non torna - Secondo Anika Profi, che ha lavorato per molti anni per l’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim), viaggiando e visitando numerosi campi di accoglienza sparsi per il mondo, «non è vero che questo dato non esiste. Mi pare impossibile. Un Paese deve essere informato su quanti rifugiati si trovano sul suo territorio: è l’Abc. Posso capire i Paesi in difficoltà come l’Italia e la Grecia. Ma in Svizzera esiste lo Statuto S e questo vuol dire che vengono erogati dei fondi, ma perché questi possano essere sfruttati bisogna avere dei dati precisi sulle persone che vengono accolte».
Stupisce inoltre la risposta della Croce Rossa (Crs): «Hanno un ufficio dedicato alle ricerche e una rete volta a mettere in contatto le comunità di persone migranti con le autorità consolari e diplomatiche proprio perché la condivisione dei dati sia più semplice».
Forti quindi di nuove informazioni circa la responsabilità dei centri federali riportateci anche dalla polizia cantonale ticinese, ci siamo nuovamente rivolti alla Segreteria di Stato della migrazione che stavolta ci ha comunicato che nel 2022 e nel 2023 sono decedute nei Centri federali di asilo svizzeri (Cfa) 20 persone. «È un numero che va messo a confronto con le 24’511 domande di asilo ricevute nel 2022 e le 17’358 riguardanti il 2023 al 31 agosto». I decessi sono avvenuti al di fuori dai centri o causati da quadri medici già avanzati all’arrivo in Svizzera. Non si sono invece registrati casi di suicidio. Ma il dato non è completo in quanto «quando le persone vengono trasferite ai cantoni, la Sem non ne è più direttamente responsabile».
Non viene quindi preso, per esempio, in considerazione il caso del centro richiedenti l’asilo di Cadro. Lo scorso luglio un ragazzo afghano di 20 anni, in Svizzera dal 2019, si è tolto la vita. Era arrivato come minore non accompagnato e, si leggeva nelle cronache alcuni mesi fa, non avrebbe ricevuto un seguito psicologico, ma unicamente dei farmaci.
Va precisato che la Sem, come confermato dallo stesso ufficio, viene informata dalle autorità cantonali di tutti i decessi riguardanti le persone straniere e funge in alcuni casi anche da «intermediario tra la rappresentanza estera e le autorità cantonali o comunali». Inoltre, «secondo la Costituzione cantonale (Cfr. Articolo 7), la collettività è tenuta a dare degna sepoltura a ogni defunto», organizzando, eseguendo e pagando le sue esequie, «se tali oneri non possono essere assunti da terzi e se il defunto non disponeva dei mezzi». Perché non sempre è possibile trasportare la salma nel Paese di origine della persona deceduta.
Per il Ticino la polizia cantonale non ha saputo fornirci un dato relativo ai decessi nei centri di accoglienza, in quanto non dispone di un dato scorporato.
E all’estero? - La stessa organizzazione per cui ha lavorato Profi e l’Alto commissariato per le Nazioni Unite (Unhcr) non hanno mai risposto a una nostra richiesta di commento sulle morti nei campi per rifugiati che si trovano in Europa, né ci hanno fornito dati esaustivi su quali siano le strutture più grandi nell’Unione, quante persone accolgano e da dove provengano.
Amnesty international, ha invece ammesso di non aver mai «approfondito il tema della sepoltura. Seguiamo solo casi particolarmente gravi, in cui le morti sono numerose e conseguenza di eventi catastrofici e/o di violazione dei diritti umani».
Di norma, però, precisa un portavoce, «fa un’enorme differenza se l’identità della persona è nota alle autorità oppure no. Nel primo caso, credo che l’informazione sulla morte venga condivisa con il consolato del Paese di origine, al fine di informare la famiglia. Nel secondo, credo che tentativi di rintracciare i parenti siano svolti da organismi specializzati. Ad esempio il governo italiano ha istituito un Commissario straordinario per le persone scomparse, e credo che anche la Croce Rossa lavori in questo senso, ma spesso senza successo, tant’è che nella maggioranza dei casi non è possibile ricostruire l’identità delle persone defunte, specie durante il viaggio per entrare in Europa. A seconda del risultato, le autorità nazionali decideranno se procedere con il rimpatrio della salma oppure con la sepoltura nel Paese europeo, nei cimiteri gestiti dai relativi comuni».
Anche Anika Profi, che si è lasciata ormai da anni una carriera molto cruda e difficile alle spalle, non sa darci dati concreti sulle morti nei campi per i rifugiati. Però rassicura: «Fortunatamente non succede spesso e ogni progetto ha un budget per rispondere a questa necessità. Inoltre quando una persona accede a un campo vengono registrati i suoi dati anagrafici e il suo Dna, per cui se muore c’è comunque la possibilità di entrare in contatto con la famiglia. In ogni caso non c’è spazio per la cattiva gestione, perché si scatenerebbero delle rivolte. Non è come quando succede una tragedia in mare».
Su questo punto, Profi, ci spiega che soprattutto in Grecia quando si verifica un naufragio ciò che succede dopo sta tra il buio e la giungla. «Magari ti dicono che i morti sono mille e invece sono molti di più. Dopo aver portato a riva i corpi bisognerebbe analizzare i loro vestiti, alla ricerca di un’identità, effettuare un’autopsia, occuparsi della conservazione e quindi della sepoltura. Anche di un rimpatrio eventuale se c’è la richiesta della famiglia. In Grecia non ci sono tutte queste risorse».
Ricorda, in particolare, le fosse comuni. «C’è questo cimitero a Lesbos dove vedi le ossa sbucare dal terreno. Vengono buttati così com’è, senza un feretro, senza niente. Come nel ‘44. E, a posteriori, diventa impossibile identificarli, perché non trovi più niente. E questo è un crimine».