Una decisione, questa, arrivata per il rotto della cuffia. Il caso infatti sarebbe andato in prescrizione il primo di marzo.
BASILEA - Praticamente 10 anni. Tanto ci è voluto per chiarire le responsabilità del decesso di una donna risalente al marzo del 2014 e avvenuto al pronto soccorso dell'ospedale universitario di Basilea. La donna era stata presa a carico dopo complicazioni sorte durante il parto del suo bambino, avvenuto poche ore prima all'ospedale Bethesda. Il piccolo, in seguito all'intervento, aveva inoltre riportato danni cerebrali permanenti.
A distanza di un decennio, dunque, due medici e un'ostetrica sono stati chiamati davanti al Tribunale penale per rispondere alle accuse di omicidio colposo e lesioni personali colpose gravi.
Un lavoro complesso che ha richiesto perizie supplementari - Chiarire la questione della colpevolezza è stato un lavoro complesso. Già in ottobre, il processo era stato sospeso e si era dovuta richiedere una perizia a causa delle numerose contraddizioni contenute nei referti medici dell'epoca. Non avendo le competenze adeguate, la Corte non era stata in grado di valutarli a dovere.
Il rapporto definitivo presentato in aula oggi, dopo il vaglio di tutti gli elementi forniti, ha scagionato gli imputati. Secondo il perito, il personale medico non ha commesso errori gravi nel salvare il bambino, confermando le dichiarazioni degli stessi imputati che hanno sempre negato ogni responsabilità.
«Non abbiamo mai potuto commentare l'aspetto umano, ma siamo sempre stati consapevoli del durissimo colpo subito dalla famiglia», ci ha tenuto a sottolineare il giudice Roland Strauss, introducendo la motivazione della sentenza.
Lungaggini evitabili - Il presidente della Corte - nel tentativo di giustificare le ragioni di tempistiche tanto dilatate -, ha quindi puntato il dito contro la procura basilese che, sugli stessi fatti, inizialmente aveva condotto tre procedimenti nell'arco di tre anni.
Le responsabilità - Il Giudice ha stabilito che "ex ante", cioè prima della morte della madre, tutto è stato fatto bene. Quando il travaglio si è fermato alle 7:45 del mattino, la somministrazione di Syntocinon - che favorisce le contrazioni -, è stata la cosa giusta da fare. Non c'erano controindicazioni per la madre e il farmaco è stato somministrato con cautela.
La somministrazione è stata interrotta alle otto perché il feto non riceveva abbastanza ossigeno. Il ginecologo ha quindi deciso di sottoporre la donna a un parto assistito, mediante l'uso del forcipe. «Sono state tutte decisioni giuste», ha precisato Strauss. Ciò è confermato anche dai rapporti. Gli imputati non dovevano presumere una rottura uterina, soprattutto perché ciò si verifica in casi rarissimi, uno su 30.000 nascite. E in questa circostanza non c'erano evidenze che potevano indurre a pensare che ciò fosse accaduto.
"Ex post", cioè in retrospettiva, la valutazione si è rivelata errata. E questo lo hanno ammesso anche i medici. Tuttavia il bambino era stato tirato fuori dall'utero senza vita. Di conseguenza è stata avviata immediatamente la rianimazione. Entrambi i medici si sono quindi concentrati sul piccolo. «Era giusto che la priorità fosse salvare il neonato», ha affermato la Corte.
Dopo la nascita sono arrivati gli errori. Secondo la perizia, infatti, a quel punto il ginecologo avrebbe dovuto effettuare un'ecografia. Secondo la Corte il fatto di non aver tenuto d'occhio i segni vitali della donna, chiaramente visibili sul display, ha rappresentato la prima violazione del dovere di diligenza.
La seconda violazione è arrivata quando il medico ha ricucito lo strappo perineale della donna. Ciò non è stato fatto "lege artis" (a regola d'arte). Se avesse usato uno speculum e una luce, avrebbe visto la rottura uterina.
Solo poco dopo le dieci, l'ecografia ha rivelato la ferita e l'emorragia interna. Il ginecologo ha quindi chiesto con urgenza un intervento chirurgico. Il medico coimputato ha insistito perché la donna fosse trasferita all'ospedale universitario. Secondo la Corte, le condizioni erano tali da giustificare il trasferimento. L'ambulanza, arrivata dopo 13 minuti, ha tentato il possibile, ma la donna non ha potuto essere salvata.
Se è dunque vero che vi è stata una violazione ripetuta del dovere di diligenza e che la sua morte poteva essere evitata, ciò non è sufficiente per una condanna.
Il ginecologo responsabile è stato sì assolto, ma dovrà pagare 30'000 franchi, ovvero il 20% delle spese processuali e la metà del risarcimento previsto dall'accusatore privato. L'altro medico e l'ostetrica sono stati invece assolti da tutte le accuse. Una decisione, questa, arrivata per il rotto della cuffia. Il caso infatti sarebbe andato in prescrizione il primo di marzo.
La sentenza non è ancora definitiva e può ancora essere impugnata.