L’11 settembre del 1973 il golpe del generale Pinochet rovesciava il governo di Allende. Il ricordo di chi ha trovato rifugio in Ticino.
Un sogno spezzato dal rumore assordante dei cannoni. Un miraggio che si è scontrato violentemente contro uno scoglio insormontabile. L’11 settembre del 1973 i soldati del generale Augusto Pinochet assaltarono la Moneda, il palazzo presidenziale cileno, mettendo fine al governo socialista del presidente democraticamente eletto Salvador Allende. «Sono situazioni che non si possono dimenticare. È stato un terremoto, uno tsunami che ha sconvolto le nostre vite». Miguel Angel Cienfuegos, direttore artistico e attore della Compagnia Teatro Paravento di Locarno, fuggito dal Cile dopo l’intervento dei militari, ha trovato in Ticino una nuova vita.
Cienfuegos, in occasione della ricorrenza, ha voluto ricordare quegli attimi drammatici attraverso un libro, “11 racconti di un esilio periferico”, pubblicato da Salvioni Edizioni. «Come per molti cileni, anch’io ho sentito di avere un debito verso coloro che hanno pagato le più gravi conseguenze del colpo di Stato e dei 17 anni di dittatura. Il libro è un modo per rendere omaggio alle persone che hanno sofferto. La seconda necessità invece riguarda un aspetto storico: mantenere viva la memoria. Ho intitolato il libro “esilio periferico” perché spesso si conoscono le grandi storie, i grandi protagonisti, ma si ignora tutti coloro che, senza essere mai stati in prima pagina sui giornali, hanno partecipato alla grande Storia del paese. Inoltre la ricorrenza dei 50 anni permette di avere accesso a una grande visibilità. Il mio auspicio è che il libro possa riaccendere la memoria».
L’11 settembre ha sconvolto la sua vita come quella di migliaia di cileni, cosa ti ricordi di quei momenti drammatici?
«In Cile, un paese in cui il pericolo sismico è molto alto, usiamo un’espressione: dove ti ha sorpreso il terremoto. La stessa formula si usa anche per il golpe: dove ti ha sorpreso il golpe. Questo per rendere l’idea della portata del fenomeno. Quando sono scoppiati gli scontri, malgrado fossi già legato al mondo del teatro, stavo seguendo un apprendistato di elettricista, un lavoro più pratico. Lavoravo in un giornale molto famoso nel paese, Clarin, che ha sempre appoggiato il governo di Allende. Un giornale di sinistra che è stato subito preso di mira dai militari quando è iniziato il golpe. Quella mattina per prima cosa iniziarono a bombardare le antenne delle diverse radio per bloccare le informazioni. La presenza militare attorno al giornale si è fatta sempre più pressante fino a convincerci a scappare. Qualcuno è rimasto in redazione ed è stato portato nello stadio di Santiago, convertito poi in campo di concentramento. È stato un colpo terribile, un terremoto, uno tsunami, un fatto impensabile. Ricordo la sensazione di stordimento, come se stessi vivendo un incubo. Poi invece è prevalsa la tristezza e la delusione di vedere l’allegria di quel periodo andare in frantumi».
I tre anni di Allende hanno portato tanta euforia. Che aria si respirava?
«L'arrivo di Salvador Allende al governo fu accompagnato da una grande allegria e dalla speranza di cambiamento. Il Cile dell’epoca era un paese molto povero dove c'erano molte ingiustizie, differenze sociali. Le possibilità di costruirsi una vita serena erano scarse. Allende ha permesso a gran parte della popolazione, i più umili, di avere un governo che gli era vicino e che li rappresentava. È stato un grande sentimento sociale collettivo, una forza enorme piena di allegria che ha coinvolto tutto il paese. Gli studenti erano impegnati in vari lavori di volontariato e gli operai nelle fabbriche erano decisi ad aumentare la produzione».
Eppure malgrado l’ottimismo, le forze che hanno in seguito rovesciato il governo stavano già preparando il golpe.
«Il primo anno e mezzo di governo la gente ha potuto godere di una relativa serenità. Poi la pressione della destra ha iniziato ad aumentare, fino a chiedere l’intervento dei militari per rovesciare Allende. Gli attentati dei gruppi fascisti, gli scioperi dei camionisti che paralizzavano il paese e le manifestazioni della destra hanno minato le certezze del governo. Però malgrado tutto, malgrado l’intervento della Cia, il popolo sosteneva Allende. Ricordo bene le celebrazioni della vittoria del governo il 4 settembre, a pochi giorni dal golpe, la grande manifestazione che si è svolta a Santiago. Migliaia di persone sono scese in strada per supportare il governo. Questo è significativo perché conferma che la maggior parte dei cileni sosteneva Allende, anche quando ormai era sull’orlo del baratro».
Perché è importante tenere viva la memoria? Come si spiega alle nuove generazioni il golpe?
«Siamo lontani dai fatti accaduti nel 1973. Credo che sia un compito molto difficile far passare la storia in modo chiaro e trasparente. Un compito che i tentativi di negazionismo della destra golpista complicano quotidianamente. C’è tutto un vissuto di quell’epoca di tutti quelli che hanno partecipato che è molto difficile da spiegare oggi. Perché i parametri e i valori non sono più gli stessi. In Cile, malgrado le nuove generazioni non hanno vissuto direttamente il golpe, i giovani sono molto attivi. Le grandi proteste del 2019 lo dimostrano. I ragazzi scesi in piazza a chiedere una nuova Costituzione avevano tra i 12 e i 15 anni, giovanissimi. Ho molta fiducia in quello che i giovani hanno intrapreso in Cile perché sono stati molto coraggiosi con una visione del mondo molto lucida».
Dopo 50 anni la ferita è ancora aperta. Nel libro sostieni che «il Cile non è ancora riuscito a liberarsi definitivamente dell’eredità della dittatura di Pinochet».
«Per prima cosa, la Costituzione del 1980, eredità della dittatura, regge ancora il Paese. Dal 2019 un movimento di contestazione popolare ha chiesto la modifica, senza ottenere niente. Ora sulla spinta delle commemorazioni assistiamo a un nuovo tentativo. Però la destra cilena ha un grande margine di manovra all'interno di questo attuale processo. La nuova Costituzione sarà probabilmente una fotocopia di quella di prima con solo alcune piccole modifiche. Il secondo aspetto importante riguarda il sistema economico che governa il Cile. Una struttura che continua a essere quella impostata dai militari con il sangue. Si tratta di un liberalismo estremista, molto selvaggio e crudele. La privatizzazione, imposta da questo sistema, ha permesso ai privati di comprare tutte le proprietà e ha favorito il gruppo che ancora oggi detiene il potere assoluto. Si è creato un connubio ormai solido tra economia e militari che deriva ancora dall’ideologia della dittatura. Infine, 17 anni di governo di Pinochet hanno lasciato in eredità l’abitudine alla violenza da parte della polizia e dei militari. La mentalità che domina tra le forze dell’ordine è semplice: chi non la pensa come loro, è considerato terrorista. La propensione naturale alla violenza che deriva dagli anni di Pinochet e non è cambiata».
Ha mai sentito nostalgia del Cile?
«Nei primi anni, come in ogni esilio, la madrepatria accompagna chi deve partire in un altro paese. Per quanto mi riguarda non ho rifiutato la nostalgia perché permette di ricordare. Però bisogna governarla e saperla gestire. Perché la nostalgia può trasformarsi in un blocco: impedisce di vedere il futuro e chiude la persona nel passato. Il teatro mi aiutato molto in questo processo, mi ha permesso di elaborare il lutto e la tristezza. In seguito sono state le proteste del 2019, questo grande sollevamento sociale, a riaccendere la mia passione e il mio interesse. Gli anni passano anche per me e i ricordi di una persona anziana sono più intensi."L’esilio si vive due volte: quando si è giovani e bisogna partire e quando si invecchia e riaffiorano i ricordi". È una frase di un poeta spagnolo, Leon Felipe, che trovo particolarmente veritiera».