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Tre incendi di una generazione in rivolta

Afghanistan, Ucraina, passando per l'Iran, Cecilia Sala, giovane reporter italiana traccia un fil rouge di chi combatte per la libertà.
Afghanistan, Ucraina, passando per l'Iran, Cecilia Sala, giovane reporter italiana traccia un fil rouge di chi combatte per la libertà.
La giornalista sarà ospite domenica all'Endorfine Festival di Lugano.

Il rumore assordante delle bombe, le grida dei bambini e la confusione di un campo profughi. I podcast di Cecilia Sala ("Stories" di Chora Media), giovane giornalista italiana ospite domenica all'Endorfine Festival di Lugano, hanno la forza di catapultare gli ascoltatori, con il solo utilizzo della voce e dei suoni, a Mariupol con i soldati ucraini oppure in Afghanistan tra le mura di una scuola femminile. «L'audio ha una potenza straordinaria: ti proietta in un'atmosfera ed è evocativo. Ti immagini la scena anche se non la puoi vedere», ci spiega la reporter a margine dell'evento.

Proprio dai podcast, un format nuovo per questi scenari, Sala ha deciso di raccontare l’attualità e comunicare la guerra. «Una bella storia, una storia particolare o speciale, ha un pubblico potenzialmente illimitato. Non interessa soltanto agli appassionati di geopolitica o di politica estera. Le storie ti calano in una situazione, permettono l'immedesimazione e stimolano l'empatia, è un modo meno freddo (del linguaggio teorico) di raccontare cosa succede oltre i nostri confini. La storia è un mezzo per raccontare poi un fatto e un contesto, si cerca di selezionare quelle che sono esempio di qualcosa di più universale».

Storie protagoniste anche nel nuovo libro “L’incendio” pubblicato lunedì scorso da Mondadori: «Tre incendi che bruciano il mondo e alla generazione che tra quelle fiamme sta diventando grande». Ucraina, Afghanistan e Iran, tre contesti collegati tra loro in cui colpisce il coraggio di persone comuni che hanno deciso di alzare la testa e ribellarsi a un sistema oppressivo di cui ormai erano stanche.

«Questo libro raccoglie incontri, fatti e conversazioni fra l’Iran, l’Afghanistan e l’Ucraina che hanno una generazione come protagonista. I ventenni iraniani sono quelli che i pasdaran e i media degli ayatollah chiamano la “generazione perduta”, con i quali la Repubblica islamica non sa più comunicare e che hanno innescato una protesta senza precedenti. La generazione dei ventenni afghani è nata attorno al 2001, quando i talebani furono cacciati, e nel 2021 ha visto i talebani tornare al potere. Sono le persone che hanno immaginato e poi iniziato a costruire la propria vita su presupposti incompatibili con i codici talebani, quelle che pagano il prezzo più evidente di un abbandono che ha già avuto conseguenze oltre i confini dell’Afghanistan, che noi abbiamo ignorato prima a nostro pericolo e poi a nostro danno. In Ucraina c’è una guerra e la guerra la fanno i giovani. I ventenni ucraini sono stati protagonisti dell’ultima rivoluzione riuscita d’Europa, quella nel 2014 che nel 2022 è stata punita da Vladimir Putin con l’invasione totale contro cui quelle stesse ragazze e ragazzi stanno combattendo».

Eppure il titolo del libro ha anche un senso più ampio giusto?

«Penso che in Italia davvero in pochi credessero all’invasione totale fino a quando non è cominciata. E quanti credevano che fosse possibile un assalto a Capitol Hill negli Stati Uniti fino a quando non siamo stati invasi dalle immagini dello sciamano? E che fosse possibile una marcia sui carri armati verso Mosca? Quasi nessuno aveva capito che a Kabul potesse finire con gli afghani che si aggrappano a un aereo in fase di decollo pur di scappare e poi si schiantano. E le conseguenze che quel fallimento avrebbe avuto altrove. Il mondo (agli occhi di chi vive in Italia, non certo di chi vive nell’Africa subsahariana) è tornato rapidamente a sembrarci molto pericoloso, dopo un periodo relativamente breve in cui ci eravamo illusi certe cose non sarebbero più successe, o quasi mai, o sempre meno. Gli esteri si sono presi molto più spazio anche come conseguenza di questa nuova consapevolezza. In Sahel ci sono Paesi non tanto lontani dal nostro dove, capitali a parte, i terroristi sono praticamente ovunque. Se al Niger questa volta abbiamo prestato più attenzione (meglio continuare a farlo) è perché abbiamo iniziato a capire che i disastri succedono in un attimo, non te li aspetti, vanno veloci e poi arrivano vicinissimi».

Quando hai trovato il tempo per scrivere?

 «Per mettere insieme e raccontare proprio le 'connessioni', il racconto quotidiano (in audio con il podcast o sul giornale) è inevitabilmente frammentato. Il libro ti permette di mettere a sistema. Di inserire le singole storie in un quadro complessivo e andare più in profondità nell'analisi. Il tempo: di notte e di domenica, il lavoro per il podcast quotidiano e per il giornale (Il Foglio) prendono molto della settimana lavorativa».

Hai seguito i soldati al fronte, ti sei trovata in situazioni delicate. Ci si abitua alla paura della guerra? 

«La paura è sana, sarebbe meglio non perderla (anche se un po' ci si abitua al pericolo) perché ci protegge. Io faccio sempre una distinzione tra paura e panico. La paura ti serve: quando c'è un pericolo imminente e specifico ti rende più concentrato, la scarica di adrenalina ti rende più veloce se devi correre, non ti fa sentire la fatica se devi scappare, soprattutto acuisce la vista o l'udito. Il panico è quando invece la concentrazione la perdi, vai in tilt e non per un pericolo specifico ma per una paranoia più generalizzata data dal fatto di essere in un posto pericoloso, per i pericoli potenziali e non quelli reali e attuali - questo per fortuna non mi capita e sarebbe un disastro».

Come si raccontano scenari e storie lontane che ai nostri occhi sembrano appartenere a un altro mondo? 

«Raccontando i dettagli, soprattutto quelli controintuitivi, lasciando perdere l'idealismo e soprattutto l'ideologia. Un esempio per me chiaro è la storia di Nabila (ragazza conservatrice e religiosa) in Iran. La protesta iraniana è stata imprevedibile e persistente, diversa dalle precedenti, proprio perché la morte di Mahsa Amini ha traumatizzato e colpito tutti, non soltanto i dissidenti. Verso i manifestanti c'è stata per un periodo una solidarietà generalizzata, anche da parte di chi il coraggio per scendere in piazza e affrontare un basiji armato non ce l'ha».


Appendice 1

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