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Come sta oggi Cosa nostra? «È molto debole» e senza un volto

A colloquio con Maurizio de Lucia, il procuratore della Repubblica di Palermo che ha arrestato Matteo Messina Denaro.
A colloquio con Maurizio de Lucia, il procuratore della Repubblica di Palermo che ha arrestato Matteo Messina Denaro.

Maurizio de Lucia, procuratore della Repubblica di Palermo, è l'uomo a capo delle indagini che hanno portato all'arresto, dopo quasi trent'anni di latitanza, di Matteo Messina Denaro. Lo abbiamo incontrato a margine della conferenza che ha tenuto oggi all'Endorfine Festival di Lugano, tracciando con lui lo “stato di salute“ di Cosa nostra e gli orizzonti verso cui l'organizzazione è rivolta.

Procuratore, vorrei partire dalla stretta attualità di questi giorni. Sappiamo che Matteo Messina Denaro non sta bene. Non mi addentro nella sua cartella clinica; ma questa situazione - quindi l'eventualità di una sua morte - è di certo un punto su cui Cosa nostra starà riflettendo. A cosa guarda oggi l'organizzazione?
«È una domanda corretta. Anche per noi. Nel senso che anche noi stiamo facendo le nostre riflessioni su quello che accadrà. Perché dal momento della cattura in poi abbiamo registrato un sostanziale silenzio dell'organizzazione. Tutti aspettano un evento; che evidentemente, dato che tutti sanno che è malato, è la sua scomparsa. Siamo al campo delle ipotesi. Però, assai ragionevolmente, sono due gli interessi dell'organizzazione per il dopo. Il primo - che è un interesse per la verità preesistente - è continuare il tentativo di ristrutturare Cosa nostra, che come è noto in questo momento manca del suo vertice. Perché tutti i capi sono stati catturati o sono morti. Ma l'altra questione, che diventa importante, è la successione “nei beni“. Noi sappiamo che lui ha ancora - nonostante i sequestri e le confische che abbiamo fatto - un consistente patrimonio che è intestato a soggetti che non conosciamo. Ma che loro conoscono. Il problema sarà quindi chi riuscirà a impadronirsi delle ricchezze dell'ex latitante nel momento in cui dovesse morire. Il che naturalmente può rendere possibili tanto conflitti quanto nuovi accordi con nuovi soggetti emergenti che possono prenderne il posto».

Torniamo un attimo al 16 gennaio scorso. “La cattura”; che è anche il titolo del libro che lei ha scritto a quattro mani con Salvo Palazzolo. Alle 9.12 il colonnello Arcidiacono la chiama e le annuncia: “Lo abbiamo preso”. È il momento in cui Messina Denaro smette di essere un fantasma. Di lì a poco ne avremmo conosciuto il volto, la voce, le abitudini. Le chat. I messaggi vocali. E, come mai era accaduto prima, dietro allo stragista, al mafioso sanguinario, scopriamo anche la normalità di un uomo. Molto più vicina a noi rispetto al “mostro“ distante che si immagina...
«Diciamo che chi conosce il fenomeno mafioso e ha già avuto a che fare con capi di Cosa nostra, che hanno scelto di collaborare con la giustizia o, più semplicemente, sono stati catturati dallo Stato, non si sorprende. C'è chi ha scritto un libro straordinario riferito a un'altra vicenda tragica della storia dell'umanità, che è Hannah Arendt quando scrive “La banalità del male“. E aveva ragione, perché il male è banale. Gente capace di porre in essere delle mostruosità, in questo caso i mafiosi che di mostruosità ne hanno compiute tante, quando li incontri faccia a faccia trovi poi delle persone apparentemente normali. Ma questa è una condizione umana. Il male è davvero banale e chi è capace di grandi atrocità è anche capace, in qualche misura, di normalità e di umanità.

Imago«Il 16 gennaio si è posto fine a una parentesi violentissima nella storia di un'organizzazione che però i suoi danni nella struttura dello Stato italiano ha cominciato a farli molto prima. E vorremmo evitare che continuasse a farli adesso»

Quel 16 gennaio è uno spartiacque nella storia d'Italia, di quelli che determinano un prima e un dopo. Nel libro però mettete in un certo senso in guardia da questa separazione. Scrivete che la mafia di oggi “somiglia molto alla mafia dell’altroieri”, quindi prima della stagione stragista. E soprattutto sottolineate che “è sempre rischioso parlare di vecchia o nuova mafia”. Perché?
«È pericoloso perché si rischia di fare confusione. La nostra preoccupazione è che tutti diano per scontato che il fenomeno mafioso è finito ed è sconfitto. In realtà è esistita una mafia, quella corleonese, che ha dominato l'organizzazione per trent'anni. Ed è quella che ha condotto un'aggressione frontale contro lo Stato attraverso le stragi. Ma Cosa nostra ha una storia di 160 anni perlomeno, e quella è solo una parentesi. La “nuova mafia“ in qualche modo tende quindi a somigliare a quella"vecchia", pre-corleonese. Ossia a quella mafia che per oltre cento anni ha convissuto con lo Stato; realizzando i vantaggi che le organizzazioni mafiose sanno trarre da questa convivenza. Quindi gli affari; l'infiltrarsi nella macchina pubblica per trarre il massimo di potere e di ricchezza. Questo è quindi il pericolo dell'allentare la guardia. Per cui, il 16 gennaio non direi che è cambiata la storia d'Italia, ma ragionevolmente - e anche simbolicamente - si è posto fine, sperando di non essere smentiti, a una parentesi violentissima nella storia di un'organizzazione che però i suoi danni nella struttura dello Stato italiano ha cominciato a farli molto prima. E vorremmo evitare che continuasse a farli adesso».

C'è però qualcosa di diverso rispetto a “ieri“. Come lei ha detto, oggi Cosa nostra non ha un vertice. E forse questa - dopo l'arresto di Messina Denaro - è la prima volta che, nell'immaginario collettivo, la mafia siciliana non ha un volto. È un buon segno?
«Le mafie hanno delle caratterizzazioni diverse fra loro. Ci sono quelle, come diceva Giovanni Falcone, più pulviscolari, come sicuramente lo sono le camorre napoletane e, in qualche misura, la 'ndrangheta. Poi c'è una mafia che ha una struttura quasi statuale, che è Cosa nostra. Perché è un vertice con delle diramazioni sul territorio che lo governano. È capace di vivere anche senza vertice. Nel senso che una serie di regole vengono rispettate a prescindere. Pensiamo ad esempio a dove vanno i profitti delle estorsioni che, rigorosamente, devono andare alle famiglie del territorio e non ad altri. Questa cosa avviene con il vertice ma avviene anche oggi, senza un vertice, perché sono regole automatiche che consentono all'organizzazione di sopravvivere. Ma non di fare quelle scelte strategiche che hanno caratterizzato la sua storia. Perché Cosa nostra è anche, ahinoi, un soggetto politico. Ma lo è nella misura in cui qualcuno è in grado di assumere delle decisioni. In questo momento quindi, il fatto che non ci sia nessuno che ha questo potere - benché l'organizzazione cerchi di ridarsi questa struttura - è un vantaggio per lo Stato».

Imago«Cosa nostra è capace di vivere anche senza vertice. Ma non di fare quelle scelte strategiche che hanno caratterizzato la sua storia. Perché Cosa nostra è anche, ahinoi, un soggetto politico».

Un nodo su cui invece può ancora contare è quello della cosiddetta borghesia mafiosa. Mi rifaccio a un passaggio del libro: “Eccolo il vero problema, quello di un pezzo di società che da un secolo è abituata a convivere e a cercare la mafia. E se non la trova si preoccupa“… È un passaggio inquietante. Dove si inizia a recidere un nodo così stretto?
«Certamente con le indagini e con la repressione penale nell'ambito dei processi. Ma questo riguarda soltanto i soggetti che colludono anche dal punto di vista penale, in maniera significativa, con l'organizzazione. Dopodiché è chiaro che si tratta di un problema soprattutto culturale. Anche per questo noi lo denunciamo nel libro. Perché qualcuno capisca che in questo momento Cosa nostra è molto debole. Il rischio è che diventi più forte, o comunque sopravviva, perché qualcuno le riconosce una forza che non ha. E questo qualcuno è proprio quel pezzo della borghesia siciliana che da generazioni è abituata a semplificarsi la vita e risolvere i problemi non rivolgendosi allo Stato ma rivolgendosi alla mafia. E che continua a cercarla e, in qualche modo, la accredita anche oggi. Bisogna essere molto consapevoli del fatto che se noi non recidiamo definitivamente questo legame, con il problema della mafia avremo a che fare ancora per molto tempo. Quindi colpire e punire quelli che colludono attivamente e spiegare a tutto questo pezzo di borghesia - colletti bianchi, imprese e commercio - che non c'è vantaggio ad avere rapporti con le mafie. Dopodiché, su un piano più generale, riconoscere che i veri strumenti della lotta alla mafia non sono soltanto poliziotti, magistrati, leggi e processi, ma soprattutto sviluppo economico e cultura».

Per concludere, prima ricordava la fase di attacco frontale nei confronti dello Stato, culminata nelle stragi del '92 e del '93. Riguardo alla minaccia che Cosa nostra pone oggi per le istituzioni italiane scrivete che “per i mafiosi il problema non è vendicarsi di qualcuno, quanto eliminare le intelligenze, all’interno dello Stato“; e citate come esempio gli anni di piombo. E aggiungete che “è un tema su cui bisognerà iniziare a riflettere“. Ci spiega qualcosa in più?
«È assolutamente questo. Giovanni Falcone viene ucciso per tante ragioni. Probabilmente anche perché i mafiosi volevano vendicarsi per l'esito del maxi-processo. Ma non è solo questo. È soprattutto che Giovanni Falcone era una minaccia concreta alla sopravvivenza dell'organizzazione mafiosa perché è lui che ha inventato la lotta alla mafia in maniera sistematica e organizzata nel nostro paese. E quindi eliminarlo diventa quasi un dovere per l'organizzazione. Facevamo il riferimento alla stagione degli anni di piombo perché anche lì i magistrati e i poliziotti che vengono assassinati dai terroristi non vengono uccisi per vendetta. Vengono uccisi perché sono quelli che meglio, e più degli altri, comprendono il fenomeno e mettono in atto gli strumenti per distruggerlo. Cosa nostra è una struttura intelligente, la vendetta viene dopo. Quello che è importante è consolidare l'organizzazione eliminando i suoi avversari più pericolosi».

E oggi vede ancora questo rischio?
«Il rischio c'è sempre in questo caso. Davanti a una serie di messaggi costruttivi che aiutano la società a liberarsi dalla mafia, la mafia reagisce. Lo ha fatto. È il trentennale della morte di Padre Puglisi che viene assassinato non solo perché è un simbolo ma perché attirava a sé i giovani della borgata di Brancaccio che invece di diventare mafiosi “rischiavano“ così di diventare persone per bene. Un messaggio di questo tipo per Cosa nostra è devastante. E la storia della lotta alla mafia è piena di questi esempi».

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