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Un faro nel buio

La testimonianza di una comunità che ha preferito il dialogo alle armi. Un'oasi in cui israeliani e palestinesi vivono in pace.
La testimonianza di una comunità che ha preferito il dialogo alle armi. Un'oasi in cui israeliani e palestinesi vivono in pace.

La guerra a Gaza divide. Nessun altro conflitto ha creato una spaccatura, una polarizzazione così profonda, nella nostra società. I discorsi si infiammano e le parole spesso cedono il passo a muri che stroncano ogni possibilità di dialogo. Una cura? Approfondire. Un lavoro certo più complesso, ma necessario. Un tentativo di districarsi nella complessità di una tragedia le cui radici si intrecciano in paure ed emozioni difficili da decifrare. Il villaggio di Neve Shalom (in ebraico), Wahat al Salam (in arabo), che significa letteralmente "Oasi di Pace", incastrato tra Tel Aviv e Gerusalemme, ci mostra la via: convivere in pace è possibile.  

«Il villaggio, fondato nel 1977, è abitato da palestinesi ed ebrei, tutti cittadini israeliani. Ci sono istituzioni comuni e una scuola dove coesistono lingue e religioni diverse nel segno di un comune rispetto e accettazione tra i due popoli», ci ha spiegato Nir Sharon, ebreo e co-direttore delle istituzioni educative di Neve Shalom Wahat Al Salam. Sharon sarà presente a Lugano oggi, mercoledì 8 maggio (inizio alle 18), assieme a Samah Salaime, palestinese e militante per i diritti delle donne. La delegazione del villaggio presenterà nella Sala degli Specchi di Villa Ciani la loro esperienza di convivenza pacifica fra le due comunità. L'incontro, promosso dalla Fondazione Federica Spitzer, verrà moderato dal giornalista Luca Steinmann.

Nir SharonLa scuola del villaggio "Oasi di Pace"

Come si è sviluppato il villaggio e quali sono stati, fin dall’inizio i suoi valori?
«Inizialmente era composto da poche famiglie. Passo dopo passo abbiamo costruito nuove case, scuole, farmacie. Il tutto sempre con un obiettivo: mostrare che è possibile vivere assieme in pace. Le guerre, l’odio e la violenza non sono le uniche strade. La comunità è composta da circa 3mila persone, 50% di musulmani e 50% ebrei. Cerchiamo di mantenere questa divisione in modo che le due religioni siano sempre rappresentate ugualmente. Non ci sono minoranze».

Quali sono i progetti che permettono di trasformare in pratica le ambizioni di convivenza pacifica?
«Creiamo uno scambio di opinioni e sosteniamo entrambe le storie, non escludiamo nessuno. Non è certo un compito facile, ma siamo convinti che sia necessario. Nello specifico ci occupiamo molto di educazione. Le nostre scuole sono frequentate non solo dai ragazzi del villaggio ma anche da studenti che abitano nelle vicinanze. Le lezioni si svolgono in entrambe le lingue. Vogliamo creare un’atmosfera nuova»

Nir Sharon

Cosa è cambiato dopo l’attacco del 7 ottobre e l’invasione di Gaza?
«È cambiato tutto, niente è rimasto come prima. L'attacco di Hamas e la risposta dell'esercito israeliano sono stati uno spartiacque. È una tragedia che ormai fa parte del nostro quotidiano. È facile dopo questi drammi chiudersi nella propria opinione e sulle proprie convinzioni: “Non voglio parlare con te, non voglio ascoltare la tua opinione”. Il nostro compito è proprio l’opposto. Specialmente in un momento così difficile il dialogo è fondamentale. Esprimere le paure e le proprie emozioni, raccontare la propria storia, spiegare la propria rabbia, questo permette alla nostra comunità di stare unita anche durante le tragedie».

Una missione necessaria, ora più che mai, ma anche sempre più difficile.
«Non siamo chiusi nelle nostre opinioni, non abbiamo paura del confronto. Dopo l’attacco del 7 ottobre molti genitori hanno espresso i loro dubbi verso le nostre scuole. “Non voglio mandare mio figlio in una classe con ragazzi palestinesi”. C’era molta paura. Il ritorno a scuola però è avvenuto senza problemi, tutti gli studenti sono tornati. Abbiamo tirato un sospiro di sollievo. I bambini avevano bisogno della scuola per cercare di capire cosa fosse successo».

Nir Sharon

All'esterno il villaggio è percepito come un esempio da seguire oppure come un progetto alieno e impraticabile?
«Non siamo sempre visti bene. Dopo l’inizio della guerra alcuni amici mi hanno chiesto come potessi vivere ancora nel villaggio: “Ci odiano, guarda cosa ci hanno fatto, vogliono ucciderci tutti”. O ancora: “Come fai a condividere la stessa casa con loro”. Altri invece considerano, ora più che mai, il villaggio come l’unico posto sicuro in Israele. Ma la maggior parte crede che le nostre ambizioni siano utopiche e che i nostri sogni non siano praticabili. Ci accusano di tradire il nostro popolo».

Perché è così difficile trovare altre realtà che ambiscono agli stessi sogni della vostra comunità?
«Credo che le persone, non solo in Israele, tendano generalmente a cercare chi è uguale a loro. È difficile confrontarsi con l'altro, come facciamo noi nel villaggio. Le persone hanno paura, temono chi è diverso. Se fosse così facile probabilmente non saremmo gli unici. Spero che in futuro altre comunità come la nostra possano svilupparsi in tutto il paese».

Nir Sharon

Anche in Svizzera il conflitto ha creato una forte spaccatura nella società. I discorsi sono violenti e spesso si dimentica di andare a fondo nella questione. Perché?
«La polarizzazione è tipica dei nostri tempi. Internet e i social media hanno l'effetto di ampliare questa divisione. Siamo esposti sempre alle stesse idee e alle stesse informazioni che consolidano le nostre convinzioni. La gente vuole semplificare la realtà. Vuole qualcuno che sia nel torto da poter attaccare e a cui addossare la colpa della guerra. La realtà è molto più complessa. Io, come israeliano, ho sempre condannato la violenza degli attacchi del 7 di ottobre. Avevo paura per il mio Stato e per la mia famiglia. Malgrado ciò sono convinto che quello che stiamo facendo a Gaza sia sbagliato. La violenza sui civili, sui bambini, sugli innocenti, non è accettabile».


Appendice 1

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Nir Sharon

Nir SharonLa scuola del villaggio "Oasi di Pace"

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