Dall'influenza "smarrita", all'attesa per le elezioni americane fino al rapporto con la Svizzera: a colloquio con Romano Prodi.
Con la voce debole e un senso di vertigini su scala globale, in bilico tra quell'unità che manca e le grandi crisi su cui fatica a reagire. Che cosa succede all'Europa? Perché tutto questo affanno? Ne parliamo con Romano Prodi, già presidente della Commissione europea - tra il 1999 e il 2004 -, che sarà ospite, domenica 15 settembre, all'Endorfine Festival di Lugano.
Professore, la voce dell'Europa nelle grandi crisi di questi ultimi anni si sente molto poco. Penso all'Ucraina, al Medio Oriente... È vero che l'Unione europea non ha mai avuto una politica estera comune ma su questi recenti scenari sembra aver smarrito ogni influenza...
«L'Europa, purtroppo, proprio non ha parlato nelle grandi crisi e nella terribile guerra di Ucraina. Hanno mediato la Turchia, l'Arabia Saudita, tanti altri paesi. Ma non c'è stata un'iniziativa collettiva europea. Tanti viaggi dei singoli leader ma nessuna grande proposta europea. E questa è la cosa che più mi è dispiaciuta negli ultimi tempi. Ma andiamo al sodo: se l'Europa mantiene il discorso dell'unanimità per prendere le grandi decisioni, l'Europa non sarà mai leader mondiale. Perché è chiaro che, con ventisette paesi, qualcuno dissenziente ci sarà sempre».
Parlando di guerre, pesa in qualche modo il fatto di essersi abituati "troppo" alla pace?
«Sì. Quando vado a parlare con i giovani e parlo della pace, mi guardano come fossi un dinosauro. E questo nonostante la guerra in Ucraina. Ritengono che in fondo, qui da noi, la pace sia garantita. Ed è terribile perché la memoria storica esiste fino a un certo punto. Esiste soprattutto la memoria personale. E ormai abbiamo almeno tre generazioni di pace e quindi è diventata come scontata. Io speravo che questa orrenda guerra d'Ucraina risvegliasse almeno le coscienze. Ha risvegliato molte paure, nei paesi di confine soprattutto. E molte angosce. Ma non il senso che bisogna lavorare attivamente per conservare la pace. E che bisogna cambiare politica per conservare la pace».
E in una fase così delicata come quella che stiamo attraversando cosa si può fare a livello europeo per risollevare questa qualità politica e dare un tono e un peso a questa voce che manca?
«Ci vuole un'unità europea. A cominciare dalla fine del diritto di veto e fare, ma veramente, una politica estera e un esercito europeo. Ma su questo siamo molto lontani perché, dopo la guerra d'Ucraina, si è creata una strana situazione, perlomeno sulla carta, dove il bilancio per la difesa più grande in Europa è quello tedesco. Ma l'arma nucleare e il diritto di veto presso il Consiglio di sicurezza sono esclusivamente in mano francese dopo la Brexit. Quindi, o questi due strumenti politici e militari vengono portati a essere di livello europeo o è difficile che si possa realizzare una difesa o una politica estera comune. Nelle ultime riunioni europee sulla difesa si è tanto discusso su come finanziarla, ma non si è discusso assolutamente su come farla. Perché le condizioni di una difesa comune stanno nel creare strutture comuni».
Lei ha nominato la Brexit. Questa situazione di debolezza è anche uno dei suoi effetti negativi...
«Certo. La Brexit ha avuto due effetti. Il primo è stato l'uscita dall'Unione europea di uno dei paesi che aveva una struttura militare tra le più forti. E aveva soprattutto un ruolo importante nella politica estera. Perché molti paesi, a partire dall'India ma vale anche per molti paesi africani, vedevano l'Europa attraverso l'occhio britannico, per via della loro storia. E allo stesso tempo, come dicevo prima, ha lasciato a un solo paese il compito di prendere decisioni necessarie per un eventuale esercito comune europeo. In teoria dovrebbe essere più facile prendere queste decisioni. In pratica sono invece molto difficili. La Francia difficilmente metterà a disposizione dell'Europa il suo privilegio nazionale».
Un ulteriore aspetto che genera apprensione in questa Europa, guardando al prossimo futuro, sono le elezioni americane. E in questo senso si sente parlare solo, o quasi, dei rischi legati a un Donald Trump "bis". In un recente articolo, pubblicato pochi giorni fa da Project Syndicate, si sottolineava però che anche con una vittoria di Kamala Harris non ci si potrebbe attendere una "totale continuità" con l'amministrazione Biden e di conseguenza l'Europa, di fatto, resta "del tutto impreparata" a quello che succederà dopo il 5 novembre. Sarà così secondo lei?
«In termini di politica economica, penso che la Harris seguirà molto quello che ha stabilito Biden. Quindi, la diminuzione della globalizzazione proseguirà. Su questo non ho dubbi. E sulla politica con la Cina non cambierà nulla, perché democratici e repubblicani l'unica politica che condividono è quella di avversare la Cina. Sulla politica europea, e sull'Ucraina, la Harris non ha ancora detto nulla. Questo tema proprio non è esistito. L'Europa non è esistita nelle sue prime dichiarazioni. E anche questo mi ha fatto molta impressione. Quindi abbiamo una politica certamente ostile all'Europa da parte di Trump e un punto interrogativo da parte della Harris».
Per concludere: la Svizzera. Che è un "problema" minore ma da sempre ha un rapporto complesso con l'Europa. Un quarto di secolo di accordi bilaterali, un accordo quadro naufragato nel 2021 e ora i nuovi negoziati ufficialmente in corso, ma senza grande ottimismo...
«Quando ero presidente della Commissione europea di progressi ne abbiamo fatti con la Svizzera. Il fatto è che, entrando nell'Unione europea, la Svizzera ha molto da guadagnare e molto da perdere. E allora, mettiamo da parte questo problema e trattiamo le cose che ci avvicinano - e ne abbiamo tante - passo per passo. Questa era la mia politica nei confronti della Svizzera. In seguito ci sono poi state maggiori tensioni, alla fine su problemi che potevano essere affrontati in modo più costruttivo. Sostanzialmente però i rapporti sono buoni. Quindi bisogna avere pazienza e pensare che, passo per passo, bisogna andare avanti».
Di certo lo status quo è favorevole alla Svizzera. Ma quali sono, in quest'ottica, le inquietudini principali a Bruxelles? Cosa preoccupa di quel piccolo "vuoto" in mezzo al continente?
«È un vuoto relativo, un "vuotino", perché gli accordi sono tanti. Come dicevo prima, penso che occorre riprendere la politica dei piccoli passi. O almeno, era il mio atteggiamento allora ma ritengo che, proprio perché i rapporti sono buoni e c'è una cooperazione forte, si debbano limare le differenze».
E pensa che sarà possibile farlo in tempi brevi?
«In questo momento, in Europa di tempi brevi ce ne sono pochi...»