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La Meloni, il fascismo, il caso Sangiuliano... Una chiacchierata con Corrado Formigli

Con il giornalista italiano mettiamo sotto la lente lo stato di salute della televisione italiana e il suo rapporto con il potere politico.
Con il giornalista italiano mettiamo sotto la lente lo stato di salute della televisione italiana e il suo rapporto con il potere politico.

La televisione italiana Corrado Formigli la conosce bene. Il giornalista e conduttore italiano, da anni ormai uno dei volti de La7 con il suo "Piazzapulita", ha lavorato nella sua carriera in Rai, a Mediaset e anche su Sky. Lo abbiamo incontrato a margine dell'Endorfine Festival di Lugano per una chiacchierata tra servizio pubblico, fascismo, il difficile rapporto con Giorgia Meloni e il recente caso dell'ex ministro Gennaro Sangiuliano.

Corrado, come sta la televisione italiana?
«La televisione italiana, parlando di informazione, tende a essere sempre più povera. C'è un problema di risorse e forse, per certi versi, anche di coraggio. Nel senso che, rispetto al passato, si tende a rischiare di meno e a investire di meno in prodotti televisivi magari più sperimentali e che richiedono più tempo. Ecco, c'è meno tempo. Una volta si dava il tempo di crescere e di sperimentare. Oggi, vieni proiettato in pochissimo tempo in prima serata e se non fai ascolto immediatamente ti chiudono. E c'è anche poco spazio per format nuovi e per gruppi autoriali che abbiano un po' più di coraggio. E questo in Rai è macroscopico. Ed è anche più imperdonabile, perché la Rai è finanziata con il canone anche per questo. Dovrebbe avere un vantaggio nel poter sganciare dalla pubblicità certi prodotti. Mi sembra quindi una televisione che ha il fiato corto. Ed è anche molto al traino dei social, quindi punta a un discorso molto frammentato e in qualche maniera abbastanza conformista. Parlando della mia esperienza personale: è dal 2016 che avevo proposto a La7 di fare "100 Minuti", che è un prodotto un po' contro-intuitivo. Perché in un momento in cui tutto è frammentato, è veloce e si allinea al modello di Instagram e di TikTok, va in una direzione opposta, ovvero un "film inchiesta" lungo, che devi seguire dall'inizio alla fine. Per fortuna, il nostro editore alla fine ci ha creduto, ce lo ha fatto fare, ed è andato benissimo. E non era così scontato. Significa che c'è un interesse del pubblico verso contenuti più coraggiosi e meno mordi e fuggi. Però è sempre troppo poco rispetto a quello che si potrebbe fare. È una televisione pigra e conformista, in cui si dà troppo poco tempo ai giovani talenti per crescere».

E parlando di servizio pubblico?
«Credo sia più la questione dei macrogeneri e dell'abolizione delle reti che ha nuociuto ancora di più al pluralismo della Rai. Per cui oggi stenti a vedere delle diversità. Certo, ci sono alcuni programmi ormai storici che sopravvivono, penso a "Report" o a "Presa diretta", però sono sempre di meno. Sono mal tollerati. E si aspetta solo l'inciampo per potergli dare addosso. È difficile oggi poter fare una televisione indipendente e di qualità sul servizio pubblico. Le televisioni commerciali sono ovviamente legate anche al tema dei costi e dell'inflazione. Oggi fare la televisione costa di più e in più arriviamo dal periodo del Covid, che è stato un periodo terribile per la pubblicità. Poi c'è stata una lenta ripresa. E ora non siamo ancora al massimo. Ci difendiamo. Ma, io che faccio televisione da tanti anni, ti posso dire che oggi è molto più povera di prima».

E poi, sempre parlando di servizio pubblico, c'è il potere politico. Si possono citare tanti esempi. Prendiamo l'ultimo, quello legato al caso dell'ormai ex ministro Gennaro Sangiuliano, con quell'intervista lunghissima al TG1...
«Perché il TG1 oggi - un po' lo è sempre stato, ma oggi è macroscopico - è il telegiornale del governo. Nel senso che il governo ne dispone liberamente. È evidente che quello che è successo con Sangiuliano si può ricostruire facilmente. Io non contesto che si dovesse intervistare Sangiuliano. Penso che il direttore del TG1 abbia fatto bene a intervistarlo. Il problema principale, che dimostra la connessione con il potere politico, è il fatto che si sia agito su input del governo. Il fatto che gli sia stato detto: tu adesso vai a scusarti, a spiegarti, al TG1, nel momento di massima visibilità. Si è data una collocazione che non ha precedenti. E che tra l'altro ha fatto perdere anche molti incassi pubblicitari. Quindi si è sacrificata anche un'ottica economica a una funzione politica; che era quella di ottenere un chiarimento e chiudere una questione che poi, per l'eterogenesi dei fini, è andata al contrario. Cioé quell'intervista ha scatenato la controinformazione di Maria Rosaria Boccia che poi ha portato alle dimissioni. Quindi alla fine non è stata neanche un'operazione politicamente furba».

E da quell'umiliante "vetrina" in prima serata chi pensi ne sia uscito peggio? L'ex ministro o la Rai?
«Sulle domande di Chiocci (il direttore del TG1, ndr.) non mi scaglierei più di tanto. Ha fatto delle domande che erano quelle. Certo, poteva essere più feroce, ma non getterei la croce su di lui. Io l'ho trovata un'operazione dal sapore un po' dittatoriale. Come se il dirigente responsabile dovesse fare un bagno d'umiliazione di fronte agli italiani per imposizione del potere: tu vai là, ti scusi con il presidente del Consiglio, ti scusi con tua moglie, magari piangi e ti dimostri contrito. Ecco, quest'umiliazione è stata terribile per Sangiuliano ma in qualche modo è stato brutto per la Rai e anche per il governo».

Passiamo ora alla tua televisione. Giovedì scorso avete iniziato con la nuova stagione di "Piazzapulita". Come di consueto con un editoriale forte e con delle domande che però restano in sospeso perché, da anni, né Giorgia Meloni né i suoi rispondono o prendono parte alla trasmissione. Cosa rispondi a chi dice che sei ossessionato dal fascismo?
«Che io non sono ossessionato dal fascismo. Io sono molto colpito dalla mancanza di risposte del governo e della presidente del Consiglio. E trovo molto grave che non faccia niente di fronte a Gioventù Nazionale (l'organizzazione giovanile di Fratelli d'Italia, ndr.). Proviamo a immaginare il caso opposto. Immaginiamo che nei Giovani Democratici venisse fuori che si fanno dei riti per Pol Pot o che ci sia la statua di Stalin e si inneggi allo sterminio dei kulaki. Ecco, proviamo a immaginare cosa avrebbe fatto la destra di fronte a tutto questo. Ora, noi ci troviamo di fronte a dei giovani hitleriani neonazisti tra le giovani leve del partito di governo e di maggioranza. E Giorgia Meloni non dice niente se non attaccando il metodo giornalistico. Promette, richiama all'ordine, ma poi nessuno di quei responsabili è stato rimosso dal suo posto. Cosa dovremmo fare? Non interessarcene? Qui c'è un tema molto importante che è quello di rispondere alle domande e di avere anche una parola chiara sul fascismo. Che non c'è stata finora. Questo è un governo che non si dichiara antifascista quando l'antifascismo è alla base della nostra Costituzione. Tutta questa cosa, raccontata all'estero, stupisce moltissimo. Tant'è vero che se ne parla di più all'estero. L'inchiesta di Fanpage è stata ripresa all'estero. Molto più che in Italia. Siamo solo noi che minimizziamo. Quindi non è una questione di ossessione. Che poi, ossessione o meno, io penso che ogni giornale o programma ha diritto alla propria linea editoriale. Se io decido di concentrarmi sul governo e sulla critica di governo, come ho fatto in passato quando c'erano Renzi e Conte, sono libero di farlo. Senza per questo essere attaccato tutti i giorni da un partito. Molto semplicemente: io penso che i politici non dovrebbero attaccare i giornalisti. Perché io sono stato attaccato. Sono stato additato sul web. E alla festa di Atreju, la festa dei giovani di Fratelli d'Italia, c'è un cartonato con la mia immagine, esposta al pubblico ludibrio degli elettori di Fratelli d'Italia. E credo che questo non sia degno di un presidente del Consiglio che aspira a essere il leader di un grande partito conservatore italiano».

Non solo dopo l'inchiesta di Fanpage non è stato rimosso nessuno, ci sono diversi ministri che hanno macchie ben più rilevanti di quella di Gennaro Sangiuliano eppure sono ancora al loro posto. Cosa ci dice questo?
«La prima cosa che ci dice è che le dimissioni di Sangiuliano smentiscono che si sia trattato di un fatto privato. Le persone non vengono fatte dimettere per un fatto personale. Se così fosse sarebbe ingiusto dimettersi. Quindi, c'è una dimensione pubblica in tutto questo. Per il resto ci dice che l'atteggiamento del governo, in generale, è più orientato a non voler cedere alle campagne "mediatiche" anziché guardare la realtà dei fatti. L'errore di Giorgia Meloni, in particolare sul caso Sangiuliano, è stato che: era evidente dall'inizio che lui si sarebbe dovuto dimettere. La presidente del Consiglio ha rifiutato di farlo proprio per non cedere a quelle pressioni che lei definisce mediatiche e politiche, perché lei associa, erroneamente, le due cose. In sostanza, per non dare soddisfazione. E così ha allargato ancora di più il buco e poi ha dovuto ottenere successivamente le dimissioni di Sangiuliano. Ecco, mi sembra che anziché guardare al bene del governo e all'immagine e alla credibilità del paese si voglia soprattutto mantenere un atteggiamento di sfida, di contrapposizione, molto forte. E ci dice molto del fatto che questo è un governo che non accetta la dialettica informazione-politica. Non accetta le critiche. Più viene criticato e più si ostina a restare fermo sulle posizioni finché, a un certo punto, queste non sono più sostenibili. E credo che questo avverrà prossimamente anche per qualche altro nome. Penso soprattutto a Daniela Santanchè, la cui posizione è sempre più difficile».

Ecco, questo atteggiamento di sfida si intreccia anche con quanto avviene verso la vostra trasmissione. Il fatto di disertarla e non rispondere alle domande. Ma a questo punto pensi che non ti rispondano perché è troppo scomodo farlo o perché, in fondo, è più comodo averti come "nemico" con un bersaglio attorno?
«La ragione per cui non vogliono rispondere, credo, è perché è più comodo mantenere un nemico da additare. La cosa che mi dispiace di tutta questa storia, di questo rapporto tra noi e la Meloni, è la posizione della presidente del Consiglio: "Io non ti rispondo perché tu non fai giornalismo ma fai politica". E questa è la cosa che mi offende di più. Nel senso che in questa torsione dell'idea della libera informazione della stampa e del ruolo tra politica e stampa si presuppone che chi critica il potere in realtà sia un politico travestito da giornalista. "Mi vuoi criticare? Candidati e vediamo chi prende più voti". Questo è il ragionamento che si fa da quella parte. È quella che io chiamo la riduzione a opposta fazione. Ecco, io mi rifiuto all'idea che chi critica il potere lo fa perché è dell'altra squadra politica. Io non sto in nessuna squadra. Io faccio il giornalista e credo che il mio mestiere sia criticare il potere. E invece il mestiere di questo governo è quello di schiacciarti in una dimensione politica e non risponderti perché non ti vogliono riconoscere la dignità giornalistica ma ti vogliono ridurre a un militante dello schieramento avverso. E credo che questo sia inaccettabile».

E questo essere bersaglio pesa in qualche modo sulla tua quotidianità?
«Ti dico la verità: no. Non pesa, perché vivo nella profonda convinzione che viviamo in una democrazia in cui le critiche sono possibili e le persone alla fine capiscono. Il rischio peggiore che puoi correre è pagare con la tua indipendenza qualcosa dal punto di vista del lavoro. Ma sulla mia persona fisica no, non ho nessuna paura».

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