Ribelle, anticonformista, incarcerata, ripudiata dalla famiglia. Ecco chi è Masih Alinejad, il mito delle donne iraniane
"Be my voice", siate la nostra voce. Questa è la richiesta delle migliaia di persone che manifestano per la caduta della Repubblica Islamica in Iran. Giovani, ragazze, madri e padri che rischiano la vita per chiedere di poter vivere liberi. 'Be my voice' è anche il titolo dello struggente documentario della regista iraniana Nahid Persson che, con questo lavoro, ha voluto raccontare la vita e la lotta quotidiana dell'attivista Masih Alinejad, che con i suoi 5 milioni di followers, è punto di riferimento delle donne che protestano per strada e sui social media per il proprio diritto ad autodeterminarsi.
Una donna ribelle e anticonformista - Nata nel piccolo villaggio di Ghomi Kola, nel nord dell'Iran, l'11 settembre del 1976, Masoumeh, per tutti Masih, ha sempre dimostrato una natura ribelle ed anticonformista, a dispetto di una famiglia che si era invece conformata ai dettami della Rivoluzione islamica. Come racconta lei stessa «mio fratello, che ha due anni più di me, poteva vivere una vita fantastica e fare ciò che voleva, come giocare a calcio o andare in bicicletta, mentre io lavoravo nei campi con mia madre e dovevo anche fare le faccende domestiche. La mia rivoluzione è nata in cucina che era fatta per adattarsi all'altezza delle donne. Così ho messo una sedia di plastica in cucina, ho fatto sedere mio fratello e gli ho detto 'ora lava i piatti'».
La prima donna a divorziare e a finire in prigione - «Ho fatto molte cose che avrebbero potuto distruggere la mia famiglia - racconta nel documentario l'attivista - sono stata la prima donna a divorziare, ad essere espulsa da scuola, la prima a finire in prigione, a restare incinta prima del matrimonio, e anche la prima diventare una giornalista parlamentare”. Arrestata per la prima volta nel 1994 per aver prodotto e distribuito dei volantini critici nei confronti del governo, Masih continuò a sfidare il Regime anche con il suo lavoro di cronista, diventando presto una voce scomoda da mettere a tacere. Sua è infatti l'inchiesta sugli introiti non dovuti percepiti dai membri del parlamento iraniano che, nel 2005, fece molto scandalo nel Paese e le causò anche l'immediata perdita del lavoro.
La fuga negli Stati Uniti - A quel punto, sapendo di avere “la bocca chiusa”, la giornalista decise di vendere la propria macchina e la casa per trasferirsi prima negli Stati Uniti, con un visto temporaneo, e poi in Gran Bretagna dove, nel 2011, si laureò in Comunicazione, Media e Cultura presso la Oxford Brookes University. Qui, come racconta lei stessa nel documentario, ha continuato ad indossare un cappello per cercare di non perdere di rispetto alla famiglia, che la voleva comunque con il capo coperto. Quando però il figlio le ha riferito che un suo professore si era chiesto come mai comparisse in tv sempre con un copricapo in testa, la giornalista si è accorta «di essere al centro di due generazioni. Non potevo vivere una vita per mia madre ed una per mio figlio, così ho tolto il cappello». Da allora, la sua folta chioma ribelle, insieme ad un fiore che indossa sempre tra i capelli, sono diventati i suoi biglietti da visita, così come una inesauribile energia che le permette di dare voce e visibilità a tutti coloro che le scrivono e la contattano, fino a 1.500 messaggi al giorno, per condividere, con lei ed i suoi followers, storie di lotta e resistenza quotidiana.
La foto dello scandalo - Mentre si trovava a Londra, Masih prese la decisione, come detto, di non indossare più nulla che le coprisse i capelli, e, a dimostrazione di questa sua volontà, pubblicò, sul proprio profilo Facebook, una foto in cui si mostrava senza velo. Pubblicò poi una seconda foto in cui si trovava alla guida di una automobile in Iran ancora a capo scoperto. Il valore simbolico dietro questo suo gesto dimostrativo venne raccolto da moltissime altre donne che le inviarono le proprie foto con i capelli in bella vista.
La lotta delle altre donne - Nel 2014, nacque così su Facebook il movimento 'My strealthy freedom', la mia libertà clandestina, che invitava le donne a diffondere delle foto senza velo quale atto di ribellione contro il governo iraniano. Tale movimento crebbe a tal punto che nacque anche un sito web in cui venivano raccolte le tantissime storie di ribellione da parte di donne, ma anche di tanti uomini che avevano aderito alla campagna fotografandosi con il velo accanto alle proprie madri e sorelle con l'hashtag #Meninhijiab, ossia uomini con lo hijab. Ciò che viene rivendicato è la libertà di autodeterminazione anche nella scelta se indossare o meno il velo islamico, imposto da Khomeini per far coprire le donne viste come l'incarnazione della seduzione e del vizio. La campagna video lanciata da Masih ebbe una forza rivoluzionaria e dirompente, tanto da indurre sempre più ragazze a mostrasi senza velo, sfidando la polizia morale che le obbliga tutt'ora, a suon di manganello o di arresti illegittimi, a coprire i propri capelli. Come detto da Masih Alinejad , in più occasioni, «le donne hanno potere ora. La loro fotocamera è la loro arma. Possono filmare i soprusi e ciò le rende più forti».
La lotta al velo diventa virale - Alla fine del 2016 la pagina aveva condiviso oltre 2 mila foto di donne iraniane senza l'hijab, mentre l'anno seguente venne lanciata la campagna 'White Wednesdays', dove si incoraggiavano le donne a non indossare, ogni mercoledì, il proprio velo e a mettersi degli scialli bianchi come segno di protesta. Per questo suo attivismo, la giornalista iraniana ha ricevuto nel 2015, nel corso del Summit di Ginevra per i diritti umani e la democrazia, il prestigioso Women's Rights Awards con la motivazione di “aver dato voce a chi non ha voce e risvegliato la coscienza dell'umanità per sostenere la lotta delle donne iraniane per i diritti fondamentali, la libertà e l'uguaglianza”.
La lotta passa per la TV - Mashi Alinejad è attiva anche in video e con il suo Tablet Show, ospitato all'interno del programma televisivo The Voice of America, analizza la situazione in Iran, condivide le storie di resistenza, incoraggia le persone a far sentire in ogni modo la propria voce contro il governo iraniano. L'attivista parla con madri di ragazze incarcerate perchè si sono rifiutate di indossare lo hijab, con donne sfregiate con l'acido per presunti atti di ribellione, con ragazze orgogliose di aderire alle manifestazioni di piazza per potersi riappropriare della propria vita. Come racconta Masih, dalla sua casa di New York, «se una donna, o un uomo, è in grado di difendere i diritti sul proprio corpo, e di dire no alla polizia, può dire di no anche al dittatore. Quando altre persone dettano come ti devi vestire, ciò che devi pensare, che tipo di regime o di educazione dovresti avere, è perchè alla fine ti abitui a fartelo andare bene. Ma se schivi il primo colpo, puoi reggere fino alla fine, come nel caso della mia storia».
Ripudiata dalla famiglia - In 'Be my voice' si vede Masih ridere, cantare, curare il proprio giardino e poi disperarsi e piangere a dirotto davanti alle richieste d'aiuto delle proprie connazionali. Il suo coinvolgimento nella storia delle donne imprigionate, se non uccise, dalla polizia è totale e non potrebbe essere altrimenti se si considera che sulla stessa giornalista, costretta a vivere sotto scorta dopo aver ricevuto numerose minacce di morte e diversi tentativi di rapimento, pende una taglia emessa dal regime. L'attivista convive ogni giorno con il dolore per il proprio sradicamento e nonostante viva una vita appagante negli Stati Uniti, le basta sentire l'odore del basilico per ripensare all'Iran. Come viene messo in evidenza del documentario, la volontà di portare sulle proprie spalle il dolore di tante persone, facendosi cassa di risonanza delle loro giuste richieste di libertà, non è stata priva di conseguenze. La famiglia d'origine l'ha ripudiata ed il fratello Alì, l'unico che condivideva con lei l'ideale di una società equa per uomini e donne, è stato incarcerato e condannato ad 8 anni di prigione.
La rivoluzione puo' iniziare dalla cucina - Per strada la giornalista ha perso moltissime persone care, familiari, amici e conoscenti, ingiustamente incarcerati quali dissidenti politici o uccisi durante le recenti manifestazioni di piazza. Secondo le ultime stime, oltre 5 mila persone sono state arrestate per motivi politici ed oltre un migliaio ha perso la vita combattendo per la propria libertà. Mentre così tante persone perdono la vita per motivi politici e religiosi, i Paesi occidentali stanno a guardare, o peggio, si rendono complici di tale situazione stringendo rapporti diplomatici ed economici con l'Iran. Come spiegato dalla stessa Masih «chi stringe le mani macchiate di sangue si macchia dello stesso delitto». Ed è per tale motivo che si vede nel documentario l'attivista scagliarsi con veemenza contro i rappresentanti della classe politica chiamare leader chi, a suo modo di vedere, «è solo un assassino» o accettare di velarsi per rispetto alla cultura iraniana anche se «questa non è per niente la nostra cultura». «Se tutti piantassimo un seme, il mondo sarebbe pieno di fiori» dice Masih parlando con ognuno di noi. Perchè ognuno può fare la differenza, perchè le rivoluzioni, come lei stessa ci ha ricordato, iniziano anche dalla cucina di casa propria.