Erano un gioco le secchiate di acqua gelida. Ma si è superato il limite tra sfide di allucinogeni e impiccagioni. E c'è chi ha perso la vita
Dopo quanto accaduto il 14 giugno a Casal Palocco, Roma, dove un bambino di cinque anni ha perso la vita a causa di un incidente stradale tra la macchina guidata dalla giovane mamma e degli youtuber impegnati in una challenge, ognuno si è sentito in dovere di dire la propria. C'è stata la levata di scudi contro i social media, rei di corrompere moralmente i giovani, ed il coro degli avvocati del diavolo sostenitori dello slogan 'le cazzate le abbiamo fatte tutti'. L'eco mediatico della vicenda ha sollevato comunque una serie di riflessioni sulle sfide social a cui partecipano sempre più giovani e sul loro significato.
Si iniziò con le secchiate di acqua gelata - Il temine 'challenge' è divenuto rapidamente familiare a tutti coloro che navigano su internet anche se non ne hanno mai preso parte: si tratta di sfide che una persona lancia ad altre perché venga emulato il proprio comportamento. Chi non ricorda, ad esempio, i milioni di video, condivisi nell'estate del 2014, in cui si mostravano delle persone che si versavano secchiate di acqua gelata addosso? Si trattava della Ice Bucket Challenge, una campagna marketing virale, lanciata dalla Als Association per sensibilizzare l'opinione pubblica sulla sclerosi laterale amiotrofica e raccogliere delle donazioni per la ricerca scientifica. La sfida, di per sé innocua, era stata raccolta da tantissimi nomi noti, da Will Smith a Bill Gates, ed aveva permesso la raccolta di centinaia di milioni di dollari per la causa.
Obiettivo: sfidare i limiti - Le challenge, da allora, hanno preso sempre più piede cambiando però rapidamente natura: se, in un primo momento, la sfida aveva un mero scopo ludico o sociale, si è successivamente spostata l'attenzione sulla ricerca di un sempre più ampio consenso sociale. L'asticella della difficoltà, di conseguenza, è andata ad alzarsi così come quella della pericolosità: la scarica di adrenalina legata al superamento di un pericolo si è rivelato un veicolo potentissimo per determinare il successo di una challenge e ottenere sempre più visualizzazioni online. Il desiderio di creare la sfida social più vista ha indotto sempre più persone a superare i limiti comuni del buonsenso e a non curarsi di preservare la propria e altrui incolumità, in un gioco al rialzo dove non sono pochi i giovani morti o rimasti gravemente feriti.
Sfida di allucinogeni - La quindicenne statunitense Chloè Phllips è deceduta il 21 agosto del 2020 dopo aver assunto massicce dosi di Benadryl, un farmaco antistaminico che serve per far fronte a problemi di allergie stagionali. Quell'anno, infatti, spopolava la 'Benadryl Challenge', una sfida social in cui i partecipanti, tutti giovanissimi, si sfidavano ad assumerne dosi elevate del farmaco per arrivare ad avere effetti allucinogeni. Lo scopo della sfida era quella di filmarsi in preda ai presunti effetti lisergici della pastiglia che, però, se assunta in grandi quantitativi può causare gravissimi scompensi cardiaci, convulsioni e, come visto, la morte.
Fino a svenire e a morire - Cercare di compilare un elenco aggiornato delle challenge più pericolose e virali è impossibile, vista la rapidità con cui vengono sostituite, così come è impossibile tenere il conto di tutti i giovanissimi utenti che hanno riportato dei gravi danni fisici e psicologici dopo averne preso parte. Tra le più estreme si possono sicuramente citare la 'blackout challenge' che consiste nel legarsi al collo una sciarpa o una cintura fino a provocarsi uno svenimento. Il tutto viene filmato e successivamente condiviso sui social per dimostrare di aver superato la sfida. Per invogliare gli utenti ad unirsi alla challenge viene loro detto che, con questa pratica estrema, si raggiunge uno stato di euforia, una sorta di sbornia benefica, quando invece, come capitato spesso, il rischio reale è quello di riportare gravissimi danni neurologici, a causa della mancanza di ossigeno, o di perdere la vita. Hanno avuto molto eco mediatico la morte del quattordicenne scozzese Leon Brown o del dodicenne inglese Archie Battersbee, i cui genitori si erano battuti perché non venissero staccate le macchine che lo tenevano in vita, trovati nelle proprie cameretta privi di sensi e con dei lacci intorno al collo.
Dalla presa elettrica ai giochi di fuoco - Vi è poi la 'penny challenge', che consiste nell'attaccare un adattatore alla presa elettrica di un muro, mantenendo però parte degli spinotti esposti. La sfida consiste nel toccarli utilizzando un penny, o una piccola moneta, con il rischio, non solo di provocare un incendio, ma di rimanere folgorati dalla scarica elettrica conseguente. Vi sono poi quelle in cui bisogna ingurgitare una massiccia dose di sale che provoca, nella migliore delle ipotesi disidratazione fino ad arrivare all'ictus, la 'fire challenge' in cui si maneggia il fuoco dopo aver utilizzando dell'alcol o della lacca infiammabile per disegnare su di uno specchio, o la 'skullbreaker', lo spaccateschi, in cui si prende a calci una persona che salta con l'intento di farlo cadere all'indietro impattando violentemente con il pavimento. In tanti hanno riportato gravi traumi cranici e alla colonna celebrale.
Un autolesionismo a portata di mano - La lista potrebbe allungarsi ancora di più citando le sfide che si focalizzano sul compiere atti di autolesionismo, di camminare su balconi e cornicioni o di assumere quantitativi smodati di medicinali in polvere o pastiglie. Che dire, poi, dell'eyeballing che consiste nella pratica di versarsi vodka e superalcolici negli occhi come fossero un collirio. La pratica, diffusasi nei campus inglesi, si è poi diffusa via social provocando, non solo delle immagini distorte, in una sorta di sballo visivo, ma anche gravissimi danni alla vista, fino alla completa cecità dato che l'alcol ha un potere corrosivo sull'epitelio che riveste i nostri occhi. Nonostante possa sembrare incomprensibile, non sono poche le motivazioni che spingono persone sempre più giovani a partecipare a queste sfide estreme via social.
Tutto per un misero like - Uno degli aspetti di maggior attrattiva di questo tipo di sfide è che, diffondendosi rapidamente a livello globale, danno la sensazione a coloro che vi partecipano di entrare a far parte di una sorta di comunità fra pari, in cui ciò che viene scambiato per forza e coraggio la fanno da padroni. D'altra parte il bisogno di appartenere ad un gruppo, e l'accettazione degli altri, è una delle caratteristiche tipiche dell'età adolescenziale dove ci si rispecchia nello spettro di valori degli amici che ci si sceglie. I social media hanno, di fatto, moltiplicato in maniera esponenziale questo stato di cose, dando la possibilità a degli utenti giovanissimi di poter condividere le proprie azioni con un numero potenzialmente enorme di persone. Così come è cresciuta la platea che guarda, così è aumentata la voglia di essere visti, riconosciuti, applauditi, fosse anche per gesti sconsiderati e pericolosi come sono molte delle challenge che hanno maggior successo.
Tra celebrità e desideri di soldi - Oltre che per la propria sicurezza fisica, le sfide sui social hanno conseguenze molto negative anche sul benessere mentale dei giovani partecipanti visto che li sottopone a dei livelli di stress e pressione psicologica insostenibili. La voglia di vincere, e di essere migliore degli altri, comporta un crescente stato di ansia e depressione, oltre ad innescare una sorta di dipendenza che porta alla perdita di interesse per le attività reali e le relazioni interpersonali. Non bisogna poi dimenticare che per molti di loro, la fama guadagnata su YouTube o TikTok, le piattaforme più usate per la condivisione delle sfide, si può convertire in una vera e propria forma di guadagno, più o meno duratura. Molti giovanissimi TikToker, divenuti celebri tra i propri coetanei, vengono reclutati da brand celebri per sponsorizzare i propri prodotti, arrivando a guadagnare delle cifre astronomiche. La notorietà, prima riservata solo ad un gruppo limitato di persone, ora sembra alla portata di chiunque e la rincorsa ad un tanto agognato momento di celebrità fa perdere la bussola non solo ai giovanissimi, che hanno parzialmente l'attenuate della giovane età, ma anche alle persone ben più mature. Che dire, ad esempio, di Trevor Jacob che, per guadagnare sempre più consensi e soldi dalle sponsorizzazioni, ha fatto volontariamente precipitare il proprio aeroplano realizzando un video dell'incidente come accordo di sponsorizzazione? Se, giustamente, davanti a delle pericolosissime challenge si grida al vuoto morale e intellettuale dei giovani, bisogna però interrogarsi se l'esempio dato dagli adulti, schiavi dei social media, sia più illuminante ed educativo.