Trent'anni fa, il 15 gennaio 1993, veniva arrestato Salvatore Riina, il “Capo dei capi” di Cosa Nostra. Un cattura avvolta da tanti misteri.
Di sicuro sappiamo che l’hanno preso. La mattina del 15 gennaio del 1993, esattamente trent’anni fa, si concludeva la lunghissima latitanza di Salvatore “Totò” Riina, il Capo dei capi di Cosa Nostra. Il più sanguinario dei capimafia.
La belva, così veniva soprannominato il boss, si nascondeva nel centro di Palermo. Lo catturano verso le 9, in una rotonda, sulla circonvallazione in viale Lazio. A pochi minuti dalla villetta al 54 di via Bernini, dove û curtu viveva tranquillamente con la moglie e i figli. Quel giorno, l’Italia scopre finalmente il suo volto. Vede quell’uomo anziano, basso e tarchiato, in giacca scura. Gli occhi stretti, il viso gonfio. È lui, all’ombra del ritratto del generale Carlo Alberto dalla Chiesa, da lui stesso fatto trucidare poco più di un decennio prima. È lui che ha dato l’ordine che ha innescato le stragi di Capaci e di Via D’Amelio, facendo saltare in aria, pochi mesi prima, i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.
La notizia si mette a correre. Nel giro di un paio d’ore ecco che le televisioni interrompono i loro programmi per annunciare che l’hanno preso. Che «oggi ha vinto lo Stato». È in un certo senso il “lieto fine”, tanto cercato, che andava scritto dopo la stagione delle stragi (la quale avrebbe tuttavia avuto la sua lunga coda nelle bombe di Roma, Milano e Firenze, ndr.) ma che, trent’anni dopo, ancora non sappiamo con esattezza come (e, in parte, da chi) sia stato scritto. Perché attorno alla cattura di Riina vanno a intrecciarsi sospetti, contraddizioni e misteri. E accade già a partire da quella stessa mattina. A ricordarcelo è Attilio Bolzoni, storico cronista italiano che per decenni ha raccontato la mafia e ha ben impresse quelle ore.
Due grandi punti interrogativi
«Stavo a Palermo già da quasi quindici anni. Avevo delle buone fonti. E quando, quella mattina, verso le 10.30, chiedo: “Che è successo? Dove l’hanno preso? E come?”, non mi dicono nulla… Perché non sanno nulla». È il primo campanello d’allarme, ci racconta. E a quel punto «penso: “Qua è successo qualcosa”». La conferenza stampa in cui i vertici delle forze dell’ordine e il procuratore della Repubblica Gian Carlo Caselli - insediatosi a Palermo proprio quel giorno - annunciano l’arresto alimenta quell’insondabile, per il momento, anomalia. La sala è affollata. Cosa ci fanno in Sicilia tutti quegli ufficiali arrivati da Torino?
Successivamente «si viene a sapere che un mafioso importante, sei giorni prima, era stato catturato in un’officina a Borgomanero, in provincia di Novara». Si chiama Baldassarre di Maggio, detto Balduccio, della famiglia mafiosa di San Giuseppe Jato. Lo prendono «con indosso un giubbotto antiproiettile e una pistola calibro 9 a canna lunga, scarica, infilata nella cintura dei pantaloni. Viene portato in caserma dai Carabinieri, chiede del generale (Francesco) Delfino e, davanti a tredici perfetti sconosciuti, dice: “Ecco dove si trova Riina”. Questo è il primo grande mistero».
Il secondo prende invece forma a partire dall’oggi di trent’anni fa. E riguarda il covo in cui il Capo dei capi stava trascorrendo la sua latitanza. È «la villa del più grande mafioso e ricercato d’Europa in quel momento. Dicono che la stanno sorvegliando, ma cinque ore dopo sospendono la sorveglianza. E quando entreranno, ben diciannove giorni dopo, troveranno tutto vuoto. Per un “disguido”, ufficialmente». E su questo punto vale la pena soffermarsi un attimo, perché lo stesso Riina, come sarebbe emerso da alcune intercettazioni effettuate (una ventina d’anni più tardi) nel carcere milanese di Opera, non è mai riuscito a spiegarselo. «Non ho potuto mai capire perché non vennero a fare la perquisizione», dice chiacchierando con il suo “confessore”, Alberto Lorusso, in quel cortile riservato e zeppo di cimici. La versione ufficiale - il fatto di non essere entrati subito nella villa per non “bruciare” il covo e la sospensione della sorveglianza, a metà di una strada, poco illuminata, tra autonomia decisionale e misunderstanding -, evidentemente, non aveva convinto neanche lui.
«Quella mattina io ero là», ricorda Bolzoni e «quando il procuratore Luigi Patronaggio sta per uscire dalla caserma, accompagnato da due giovani ufficiali dei Carabinieri, che oggi sono due generali, viene fermato dal capitano Sergio De Caprio - il “Capitano Ultimo” - che dice “no, non perquisiamo perché dobbiamo prendere anche gli altri”». Ma già a partire da poche ore dopo, lo abbiamo detto, la sorveglianza sulla villetta in via Bernini sarebbe stata sospesa. All’insaputa dei magistrati, che per oltre due settimane avrebbero invece ricevuto garanzie sul fatto che l’osservazione stava continuando.
E i favoreggiatori del boss dove sono?
Le pareti erano state ritinteggiate. I sanitari divelti. Il vano della cassaforte svuotato. I mobili accatastati in una stanza. E se c’erano carte importanti, come è lecito immaginare, chi ha fatto pulizia si è chiaramente portato via pure quelle.
La mancata perquisizione fu un segnale rivolto a qualcuno? Parte di un accordo nell’ambito della famigerata trattativa Stato-mafia? E i fiancheggiatori dove sono? Perché è anche per arrivare a loro che si decise di non entrare subito nella villa. Questo è «l’aspetto ancora più interessante», sottolinea Bolzoni. «Tutti gli arresti dalla fine del 1992, da quello di Piddu Madonia in poi, quindi Aglieri, Bagarella, fino a Provenzano… Per tutti i grandi latitanti, ogni arresto si porta dietro una catena, a volte anche di centinaia, di favoreggiatori. Qui invece non è mai stato arrestato nessuno oltre a Salvatore Biondino, che era in macchina con lui. Nessuno».
È un altro capitolo profondo e complesso - e, ça va sans dire, buio - che merita un’analisi a parte. Ma ci ritagliamo comunque lo spazio per una breve riflessione, dettata dall’istinto. Si può mai pensare che il peso specifico di qualche fiancheggiatore potesse essere più elevato rispetto a quello dell’eventuale “tesoro” del numero uno di Cosa Nostra? Difficile. Tanto più, come ricorda Bolzoni, considerando quanto gli inquirenti siano riusciti a ricostruire utilizzando i pizzini che Riina aveva con sé, nel borsello, al momento del suo arresto. «Solo con quelli hanno fatto anni e anni di indagini e di arresti. Indagini formidabili, partendo solamente da quei tre o quattro pizzini».
Un arresto mai visto
Ad aggiungere ulteriore contorno a misteri e incongruenze, c’è poi il fatto che quello di Totò Riina è, nel senso più letterale, un arresto mai visto. Il che potrà anche essere un dettaglio relativo, ma è un dato di fatto che non esistono (o non sono mai state mostrate) fotografie di quel momento; che nell’immaginario collettivo sopravvive sospeso tra le versioni ufficiali e le loro espressioni romanzate nelle varie fiction che l’hanno raccontato.
Abbiamo i filmati del blitz nel casolare di Montagna dei Cavalli in cui fu catturato Bernardo Provenzano. Le immagini dell’arresto di Giovanni Brusca, trascinato, da due agenti con il volto coperto, fuori da una villa ad Agrigento. E ancora prima, e torniamo al 1974, quelle di Luciano Liggio, la "primula rossa" di Corleone, scortato all’esterno di un appartamento a Milano. Riina invece no. Le prime immagini sono quelle al suo arrivo in caserma. «Ho cercato un testimone per settimane e settimane nei palazzi intorno alla rotonda di viale Lazio. Ma nessuno ha visto l’arresto», rammenta Bolzoni.
Certamente, e non si discute, la cattura di Totò Riina è uno spartiacque. Traccia un solco tra un prima e un dopo. Ma c’è differenza tra ciò è che è effettivamente stato e ciò che, invece, un evento tanto dirompente avrebbe potuto (e dovuto) essere. Non un semplice «confine» tra due epoche di Cosa Nostra - perché è bene ricordare che «i corleonesi rappresentano un’anomalia nella storia secolare della mafia. Sono quelli che fanno le stragi. E la mafia nella sua natura non ha la strage» - quanto piuttosto nella storia dell’intera Penisola. E, soprattutto, non l’ennesima nuvolaglia di ombre. Perché, trent’anni dopo, sappiamo sì che l’hanno preso, ma ancora non sappiamo bene come.