Il 27 gennaio del 1994, trent'anni fa, venivano arrestati a Milano i fratelli Giuseppe e Filippo Graviano, boss stragisti di Cosa nostra
«Vada a indagare sul mio arresto e sull'arresto di mio fratello e scoprirà i veri mandanti delle stragi [...] Scoprirà tante cose». Quell'arresto - di cui Giuseppe Graviano, boss di Cosa nostra, parlava in quei termini, rispondendo al pubblico ministero di fronte alla corte d'assise di Reggio Calabria nell'ambito del processo "Ndrangheta stragista" - avveniva esattamente trent'anni fa, in un ristorante di Milano. Ultimo tassello di cinque giorni che hanno, di fatto, cambiato la storia d'Italia.
Sono circa le 20.10 del 27 gennaio 1994. I Carabinieri fanno irruzione da "Gigi il cacciatore", in via Procaccini. Puntano a quel tavolo attorno a cui sono sedute sei persone. Due di loro sono i fratelli Giuseppe e Filippo Graviano - entrambi latitanti, ma che girano tranquillamente per il capoluogo lombardo tra lo shopping in via Monte Napoleone e le cene di lusso, proprio come in quell'ultimo giorno da uomini liberi -; ci sono poi le rispettive compagne e altri due amici, arrivati il giorno prima da Palermo. Ed è seguendo questi ultimi due - i loro nomi sono Salvatore Spataro e Giuseppe D'Agostino, entrambi già favoreggiatori dei Graviano - che i militari sono arrivati fino ai due boss di Brancaccio.
A indirizzarli è una telefonata arrivata il 25 gennaio alla caserma dei Carabinieri di Palermo. Chi ci fosse dall'altra parte della linea non è mai stato svelato. Ma l'indicazione è chiara: se volete prendere i boss di Brancaccio dovete seguire quell'infermiere che, l'indomani, prenderà un treno diretto a Milano. E così fanno. Anche quello dei Graviano è un arresto strano. Come lo era stato, poco più di un anno prima, quello di Salvatore Riina. Un arresto di cui entrambi non avevano alcun sentore, blindati nelle certezze della loro agiata latitanza al nord. «Facevo una vita normale, circondato da una copertura favolosa», dirà anni dopo Madre Natura - alias quantomai eloquente con cui ci si riferiva a Giuseppe negli ambienti di Cosa nostra -, per cui quell'arresto resterà un cruccio indelebile. Una vera ossessione. «Io non me l'immaginavo mai al mondo che mi arrestavano[...] Non avevano manco la mia fotografia», racconterà al suo compagno di detenzione, il camorrista Umberto Adinolfi. Fatto sta che da quel momento «sono finite tutte cose».
L'ultima strage (che non è avvenuta)
Niente più bombe. Nessuna altra strage. L'ultima era stata pianificata per qualche giorno prima, allo Stadio Olimpico di Roma. Il 23 gennaio; una Lancia Thema imbottita con quintali di tritolo, "guarnito" con tondini di ferro, sarebbe dovuta esplodere all'esterno, in viale dei Gladiatori, in corrispondenza di un presidio dei Carabinieri, mentre la folla lasciava lo stadio al termine della partita di campionato tra Roma e Udinese. Ma l'ora X era fissata al passaggio del bus che trasportava i militari. Nell'inferno che era stato pianificato dagli stragisti avrebbero perso la vita più di un centinaio di persone. La strage più grave nella storia dell'Italia repubblicana; ma tra quel colpo di grazia e la vita di un Paese, da tempo sulle ginocchia, si frappone un guasto. Un miracolo, come lo chiamerà qualcuno. Quel pomeriggio, dalla collinetta di Monte Mario, il telecomando viene premuto ma non accade nulla. L'impulso non parte e il buco nero non si spalanca.
Poi diventa troppo tardi. Passato il pullman, l'esplosione farebbe a quel punto unicamente scempio tra centinaia di civili. Così il commando, composto da Gaspare Spatuzza - il mafioso che nel 1992 aveva rubato la Fiat 126 utilizzata come autobomba per uccidere il giudice Paolo Borsellino in Via D'Amelio - e Salvatore Benigno, si ferma. I due fuggono e l'ultima strage non avviene. L'attentato non sarà mai ripetuto.
Una tacca mancata sul curriculum criminale dei due boss, condannati negli anni per le stragi di Capaci e di via D'Amelio; per le bombe del 1993 - a Firenze, Milano e Roma -; per gli omicidi di Don Pino Puglisi, presbitero antimafia del quartiere Brancaccio, feudo dei Graviano, dei carabinieri Antonino Fava e Vincenzo Garofalo e del piccolo Giuseppe Di Matteo. Su quella strage fallita però si indaga ancora oggi, in quel di Firenze. Perché quei cinque giorni di fine gennaio di trent'anni fa sono quelli che in un certo senso hanno tenuto a battesimo la cosiddetta Seconda Repubblica.
«Un accordo politico nelle mani»
Ma torniamo alle parole che abbiamo citato all'inizio. A quel «vada a indagare sul mio arresto [...] e scoprirà». È un boccone mai digerito da chi era convinto di avere ormai il Paese «in mano», forte di un «accordo politico» - reale o presunto - con un nuovo partito in rampa di lancio proprio in quei giorni, ovvero Forza Italia. Quindi - secondo le dichiarazioni rese da Spatuzza sulle confidenze ricevute dal boss - con l'allora futuro presidente del Consiglio SIlvio Berlusconi e il suo allora braccio destro Marcello Dell'Utri. Un accordo, proseguendo tra citazioni, «che se va in porto sarà un bene per tutti», concluso tra la fine del 1993 e quei giorni di gennaio 1994.
È utile a questo punto soffermarsi brevemente sul presunto intreccio e sul delicato momento storico che l'Italia stava vivendo, travolta da una grave crisi finanziaria, dallo scandalo "Mani pulite" e, appunto, dall'attacco frontale di Cosa nostra allo Stato. Il 13 gennaio, il governo Ciampi si dimette. Il 16 gennaio il presidente della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro, scioglie le Camere. E qui andrebbe a inserirsi il disegno di quella strage conclusiva. «Un altro colpetto» per destabilizzare del tutto il Paese - sfibrato e ormai senza più neanche un esecutivo e un parlamento - e poterlo poi stabilizzare. E perché l'accelerazione in quei giorni? «Non è che la fretta di Graviano per portare a termine il fallito attentato all'Olimpico era legata al fatto che la settimana dopo sarebbe stata annunciata la discesa in campo di Berlusconi?». A porre la domanda - e formulare quell'ipotesi, che finora non è mai stata dimostrata - è Giuseppe Lombardo, procuratore aggiunto di Reggio Calabria, nella sua requisitoria al già citato processo "Ndrangheta stragista".
Se qualcuno ha beneficiato degli effetti dello stragismo che ha incorniciato quella stagione, sostengono gli inquirenti, questi sarebbero stati quindi il leader di Forza Italia e il suo co-fondatore. Berlusconi è stato indagato nell'inchiesta di Firenze sui mandanti esterni delle stragi fino alla sua morte, avvenuta il 12 giugno scorso. Marcello Dell'Utri è tuttora iscritto nel registro degli indagati.
Il nome dell'ex presidente del Consiglio è stato più volte pronunciato da Giuseppe Graviano. Il boss non ha mai collaborato con la giustizia. Ma parlare, quello sì; mescolando dichiarazioni, quasi sempre fumose, ad avvertimenti e messaggi trasversali. Tra le affermazioni proferite di fronte alla corte d'Assise di Reggio Calabria si ricordano i presunti incontri con il Cavaliere - tre, secondo il boss, in virtù di affari risalenti agli anni Settanta, legati agli investimenti immobiliari effettuati dal nonno, Filippo Quartararo, nel nord Italia - così come il fatto che a non voler fermare le stragi sarebbero stati dei non precisati «imprenditori di Milano». Su quei nomi Graviano ha però sempre sorvolato. Anche quando il pubblico ministero lo incalza - «Lei ci vuole dire oggi chi sono i responsabili delle stragi?» - il copione non cambia - «Io non faccio l'investigatore» -; Graviano parla ma non dice. «Lo sai cosa scrivono delle stragi?», dice il boss, intercettato in una conversazione in carcere con il solito Adinolfi. Che «le stragi si sono fermate grazie all'arresto del sottoscritto».
Ed è così. Il "clic" delle manette di quel 27 gennaio di trent'anni fa disinnesca una stagione che, nella Penisola, tra il 1992 e il 1993, ha provocato 21 morti e oltre un centinaio di feriti. Ventiquattro ore dopo la discesa in campo di Silvio Berlusconi. Quattro giorni dopo il fallito attentato allo Stadio Olimpico di Roma. E l'Italia cambia.