Esattamente trent'anni fa, il magistrato italiano pronunciava il suo "j'accuse". Fu il suo ultimo discorso in pubblico.
Dopo la strage di Capaci, Paolo Borsellino si ritrovò nella stessa situazione del collega e amico ucciso. Isolato ed escluso. In quei 57 giorni chiese di poter riferire «come testimone» all'autorità giudiziaria. Non fu mai ascoltato.
PALERMO - Trentatré giorni dopo la strage di Capaci, ventiquattro prima di quella di via D’Amelio. Il giudice Paolo Borsellino conosceva la prima di queste cifre. Non ancora la seconda, quando pronunciò quello che sarebbe stato il suo ultimo discorso pubblico - la sera del 25 giugno di trent’anni fa, nell’atrio della biblioteca comunale di Casa Professa a Palermo. Ma aveva ben chiara la consapevolezza di avere dalla sua ancora poco tempo. Di dover per forza correre, come ripeteva ossessivamente ai colleghi e alla moglie Agnese. Di essere un morto che camminava.
Quella sera, Borsellino, come disse lui stesso nel momento in cui prese la parola di fronte al pubblico, era lì «soprattutto per ascoltare». Ma la realtà dei fatti è che il magistrato siciliano aveva anche molto da dire. «Come testimone», in virtù della lunga esperienza di lavoro che aveva condiviso con l’amico Giovanni Falcone, di cui aveva raccolto «tante confidenze», maturando le sue «convinzioni». Tanti elementi «che io porto dentro di me», da «assemblare e riferire» prima all’autorità giudiziaria, «l’unica in grado di valutare quanto queste cose che io so possono essere utili alla ricostruzione dell’evento che ha posto fine alla vita» di Falcone. Nel rispetto di quel senso dello Stato e delle istituzioni che fu cardinale nella sua vita. In quei 57 giorni, Borsellino “implorava” di poter parlare con la Procura di Caltanissetta. Non fu mai ascoltato.
Quelle confidenze - «e mi dispiace, se deluderò qualcuno di voi», disse - il giudice non le condivise quindi con il pubblico. Ma parlò dell’amicizia. «Non per imbarcarmi in questa gara che purtroppo vedo fare in questi giorni per ristabilire chi era più amico di Giovanni Falcone»; ma per squarciare le nebbie dell'isolamento che per decenni in Sicilia sono state l’anticamera della morte. Una sentenza di primo grado. Spesso emessa dal gotha di Cosa nostra. Ma, è bene ricordarlo, non solo. Le stesse nebbie che avevano a lungo tentato di avviluppare il magistrato ucciso a Capaci e che stavano ora avvolgendo colui che veniva da tutti considerato come il suo "erede" naturale.
I giorni di Giuda
I pensieri di Borsellino fecero a quel punto un salto indietro di quattro anni. Guidati da una frase di Antonino Caponnetto, condottiero del Pool antimafia che negli anni '80 istruì il primo, storico, Maxi Processo contro la mafia. «Giovanni Falcone cominciò a morire nel gennaio del 1988. Io condivido questa affermazione». Ma fece anche le dovute precisazioni, chiarendo che quanto avvenuto a Capaci non era da intendersi come «il naturale epilogo di questo processo di morte». Sul fatto che avesse contribuito a spianarne la strada, invece, già allora i dubbi erano pochi. Borsellino parlava lentamente. Pesava le pause e i respiri.
In quel gennaio del 1988, Falcone era infatti candidato a succedere a Caponnetto alla guida dell'ufficio istruzione di Palermo.
Una successione suggerita da quasi ogni logica. Ma non da quelle di certi poteri. E infatti, «il Consiglio superiore della magistratura con motivazioni risibili gli preferì il consigliere Antonino Meli», che mai si era occupato di mafia. Meli operò un netto cambio di rotta, stravolgendo l'ufficio istruzione e smantellando di fatto il Pool antimafia. Nel pronunciarne il nome, Borsellino abbassò per un attimo lo sguardo, socchiuse gli occhi e si portò la mano alla fronte. Come se quello stesso ricordo fosse rivestito di spine. «Falcone concorse... Qualche Giuda si impegnò subito a prenderlo in giro», disse con voce tagliente e ferma. E per alcuni istanti, in quel di Casa Professa il rumore degli applausi sovrastò tutto il resto.
Dopo quello schiaffo, il magistrato si era «reso conto subito che nel volgere di pochi mesi Giovanni Falcone sarebbe stato distrutto. E ciò che più mi addolorava era il fatto che sarebbe morto professionalmente nel silenzio e senza che nessuno se ne accorgesse». Un silenzio che, il più delle volte mescolato al fango, avvolge, isola e lascia che il vuoto inghiotta tutto. Lo stesso silenzio a cui vennero condannate le rivelazioni e gli elementi che Paolo Borsellino voleva affidare all'autorità giudiziaria. Un silenzio che si sarebbe trascinato per altri ventiquattro giorni, per poi venire squarciato nel tardo pomeriggio di una domenica di luglio, in via Mariano D'Amelio.