Intervista all’esperto e attivista ambientale neozelandese Daniel Batten, voce autorevole sul rapporto tra clima e tecnologia.
Innovazione tecnologica e sostenibilità ambientale: due elementi che giorno dopo giorno, in qualunque ambito, stanno venendo a contatto, quasi fondendosi, in un’associazione sempre più marcata. Non fa eccezione, chiaramente, il rivoluzionario universo Bitcoin, che proprio su questo presunto contrasto ha generato, negli anni, un ampio dibattito sfociato in una vera e propria polarizzazione: da una parte chi ritiene che sia una tecnologia deleteria per l’ambiente, dall’altra chi sostiene, letteralmente, l’esatto contrario.
Tra le linee di questa discussione, Daniel Batten, 50enne analista neozelandese specializzato nel segmento Bitcoin e Blockchain, si è ritagliato una posizione di primissimo piano, grazie a un approccio chiaro, lineare e concreto. Riconosciuto a livello globale da addetti ai lavori e appassionati del settore, Batten è infatti anche un attivista appassionato di temi ambientali, che utilizza la sua profonda conoscenza tecnologica per stimolare nuovi percorsi di contrasto al cambiamento climatico, fornendo il suo apporto, proprio a partire dall’utilizzo di Bitcoin, da un ruolo positivo e attivo che il mining può avere a favore dell’ambiente.
Batten, che ne ha parlato già diffusamente durante l’edizione del Plan ₿ Forum tenutasi a Lugano il 20 e 21 ottobre di quest’anno, nel corso del panel intitolato "Bitcoin Mining Misconceptions", sfatando falsi miti e chiarendo l’effettivo impatto ambientale della generazione e del mantenimento del sistema Bitcoin, ci ha gentilmente concesso un’intervista per portare questi dettagli oltre le mura del Palazzo dei Congressi.
Daniel, quali sono i preconcetti più comuni che emergono nella copertura mediatica mainstream sull'impatto ambientale di Bitcoin?
«Bitcoin è stato spesso criticato per aver riattivato impianti di combustibili fossili dismessi, per il fatto di far leva, presso molti nodi della sua rete, su un’alimentazione proveniente da tali fonti energetiche e, ancora, poiché ha un'intensità di emissione elevata, che aumenterebbe ulteriormente in proporzione con il contestuale aumento del suo prezzo. Molte di - se non proprio tutte - queste argomentazioni sono false: ora, infatti, che abbiamo una migliore capacità analitica dei dati sul mining e sul suo utilizzo energetico, è tutto ampiamente dimostrabile.»
Quali sono state le principali limitazioni nei modelli che hanno valutato l'impatto ambientale del Bitcoin?
«Il “Modello di Cambridge”, ritenuto per parecchio tempo il migliore, escludeva il mining off-grid - collegato cioè a impianti autonomi e dunque “fuori dalla rete elettrica” tradizionale, come quelli fotovoltaici - e ora si fonda anche su un set di dati vecchio di quasi due anni. Insieme, questi due fattori risultano in una sovrastima significativa della generazione di Bitcoin basata sui combustibili fossili (perché il 75% di chi fa mining off-grid utilizza energia sostenibile). Per questo motivo, Bloomberg Intelligence ha recentemente smesso di usare il modello di Cambridge e ha iniziato a usare BEEST, un modello che ho sviluppato io, che affronta entrambe le limitazioni del modello di Cambridge.»
C'è la possibilità di valutare in modo più equo e scientificamente fondato l'impatto ambientale di Bitcoin?
«In generale, la tecnologia Bitcoin, come qualunque tecnologia emergente, deve essere valutata in modo oggettivo. Anche se è usuale, purtroppo, scontrarsi con i pregiudizi psicologici, perché è una tendenza umana temere l'ignoto e provare ansia di fronte a ciò che non si conosce. Le nuove tecnologie, per definizione, infatti, portano con sé molte incognite, motivo per cui spesso sono attaccate proprio nel momento in cui le persone stanno iniziando a familiarizzare con queste. Durante tali fasi, emerge l’evidente rischio che il pensiero razionale ceda il posto alle emozioni e alle congetture. D'altra parte, anche le affermazioni di beneficio ambientale e sociale non dovrebbero essere prese per buone. Dovrebbero, piuttosto, essere quantificate, dimostrate e quindi supportate da prove, cosicché una nuova tecnologia, magari destinata a rimanere negativa per l'ambiente, non si faccia strada nella diffusione di massa, promossa poi attraverso tecniche di greenwashing.»
Sulla base di questo, quali potrebbero essere le implicazioni a lungo termine, se la Commissione Europea etichettasse il Bitcoin come un asset "ambientalmente dannoso"?
«Potrebbe interrompere un dibattito sano e intelligente, e lo stesso principio, che sposo pienamente, secondo cui Bitcoin ha il potenziale per essere utilizzato come tecnologia in grado di contenere il cambiamento climatico. Potrebbe, infine, anche portare al divieto di svolgere attività di mining di Bitcoin nei territori dell’UE, causando un forte impatto economico sugli stessi».
Come risolvere, allora, il problema di approccio alla valutazione di questa tecnologia, poiché siano chiare ai legislatori le sue potenzialità?
«La metodologia ideale per valutare una tecnologia dovrebbe tenere in considerazione questo principio: "Se questa fosse stata applicata all'industria solare nel 1990, l'avremmo etichettata come 'nociva per l'ambiente'? Se la risposta fosse 'sì', allora potremo essere più o meno certi di trovarci di fronte a degli errori e a dei difetti fondamentali nella completezza della metodologia utilizzata. Un insieme di domande oggettive per valutare l'impatto ambientale di una nuova tecnologia dovrebbe partire da quesiti del tipo: quali sono le esternalità ambientali negative di questa tecnologia? Tale impatto è stato quantificato da parametri oggettivi che lo comparano con l'impatto delle tecnologie esistenti? Come facciamo a essere certi che le metodologie e i dati alla base dei modelli siano accurati? Abbiamo un elenco esaustivo di queste esternalità negative? Le metriche utilizzate per valutare e misurare sono adatte allo scopo, chiare, prive di rischio di interpretazione errata e appropriate per quella tecnologia? Quali sono, invece, le esternalità ambientali positive di questa tecnologia? Tale impatto è stato quantificato in modo oggettivo e confrontato con le tecnologie esistenti?
Poi, andrebbe messa in discussione l’ipotesi formulata, chiedendosi: "Le apparenti esternalità negative possono avere un'applicazione positiva?" Ad esempio, se l’elevato uso di energia elettrica determina un apparente impatto negativo, questa energia può fornire flessibilità alla rete e consentire agli operatori di controbilanciare l'intermittenza dell'energia rinnovabile? L’energia utilizzata tende al rinnovabile o meno? Tale elettricità può derivare da dispersa o altrimenti sprecata? Ancora più importante: può, questa energia, essere alimentata da fonti a emissione negativa come il metano ventilato o il metano bruciato, che hanno un impatto diretto nella riduzione delle emissioni di anidride carbonica? E, ancora, qual è la probabile traiettoria ambientale di questa tecnologia?
Bisognerebbe poi ragionare sul contesto: quando una tecnologia inizia a esistere, manifesterà sempre maggiori esternalità negative che positive, e lo farà per molti anni, talvolta decenni. Un esempio? Il solare è stato inventato nel 1954, ma non ha avuto esternalità a somma positiva (in termini di carbon credit) fino al 2010. Nel 1990, come anticipato, c’era ancora, tra gli ambientalisti, un ampio dibattito per capire se tale tecnologia fosse un problema o una soluzione per l’ambiente, a causa del suo altissimo utilizzo di energia elettrica e all’impronta di carbonio dovuta ai forni necessari per fondere il silicio per il fotovoltaico.
Da qui si attivano ulteriori quesiti. Se il solare, ad esempio, ha la capacità di ridurre le emissioni di altre tecnologie, stiamo considerando questa variabile collegata nella valutazione di queste ultime? Ci sono altre possibili conseguenze ambientali negative della tecnologia che fornisce energia, che potrebbero sorgere in futuro? Siamo in grado di quantificarle? Qual è l'utilità attuale della tecnologia Bitcoin?
Dall’ultima domanda, ci ricolleghiamo al fatto che molte tecnologie (come Internet) hanno un'impronta di carbonio considerevole e probabilmente non riusciranno mai a mitigarla. Tuttavia, ci auto-giustifichiamo per il suo utilizzo sostenendo che il suo impatto sociale positivo è molto alto. In breve, sebbene sia preferibile che una tecnologia guadagni il suo “diritto di utilizzo” basandosi puramente sul suo beneficio ambientale netto, nel valutare il suo impatto complessivo dobbiamo comunque considerarne (e quindi cercare di comprenderne) l'utilità attuale e futura potenziale, altrimenti c'è il rischio di presumere, senza dati, che essa sia percepita come "inutile" o "energivora".
Questi tipi di aggettivi hanno spesso accompagnato il Bitcoin, tuttavia ci sono pochi dati a sostegno di queste ‘incriminazioni’, e, al contempo, un corpus di dati ampio e in crescita costante a sostegno della tesi che Bitcoin possa rappresentare, al contrario, un valore che migliora la vita a milioni di persone, in particolare nel Sud del mondo, e all’ambiente in cui esse vivono.»
Come pensi che i rapporti finanziati dalle Banche Centrali e dalla Ripple Corporation possano influenzare la percezione dell'impatto ambientale di Bitcoin?
«Ogni tecnologia dirompente viene attaccata e screditata da chi può ricevere un contraccolpo economico in seguito alla sua adozione: i media che si fondavano sulla carta stampata, ad esempio, hanno attaccato Internet, e, prima di questi, l'industria degli allevamenti di cavalli e della produzione dei carri hanno aggredito il segmento nascente delle automobili. Oggi, con il medesimo approccio, alcune Banche Centrali attaccano Bitcoin. Perché il Bitcoin disintermedia il rapporto tra le persone, rendendo poco o per nulla utili alcune istituzioni, tra cui le stesse Banche Centrali. Bitcoin è anche attaccato dai fondatori di altre criptovalute molto ben finanziate (altcoin), come il presidente di Ripple Corporation (che emette il token XRP) Chris Larsen, il quale ha donato personalmente 5 milioni di dollari a Greenpeace, negli Stati Uniti, per condurre una campagna anti-Bitcoin per l’ambiente.»